Cinquant’anni possono essere tanti e pochi, e possono segnare un cambio epocale nella storia di una regione: questo è esattamente quanto è avvenuto nel Vicino Oriente, dove il 1967 segna una cesura abissale tra il “prima” ed il “dopo”.
Prima c’era un piccolo stato ebraico, apparentemente vulnerabile, giovanissimo (aveva 19 anni) ed abitato da persone provenienti da mezzo mondo, che talvolta non si capivano in una babele di lingue e di culture. Dopo, beh dopo…dopo c’è stato uno stato ebraico invincibile, audace, organizzato, perfino arrogante per la consapevolezza che aveva acquisito di sè. Dopo c’è stata un’altra guerra, un primo trattato di pace con l’arcinemico, poi un secondo trattato di pace con uno stato confinante. E dopo c’è stato un popolo che si è liberato del pesantissimo fardello dell’emarginazione impostogli dai suoi fratelli arabi e che ha chiesto a gran voce, con le armi e con il terrorismo, di contare qualcosa nel mondo.
E prima c’era una città trimillenaria, Gerusalemme, divisa da filo spinato: la parte più antica, sacra alle tre grandi religioni delle quali era stata la culla, in mano alla Giordania, il quartiere ebraico era stato devastato e gli ebrei non potevano accedere al “Muro del pianto”, l’unica testimonianza rimasta dell’ antico Tempio. Dopo, cioè ora, la città è unificata, il quartiere ebraico ricostruito, i luoghi santi dell’Islam sono affidati alla sovranità giordana e chiunque, a qualunque fede appartenga, può andare a pregare nei luoghi a lui sacri.
Il “dopo” lo stiamo ancora vivendo, giorno dopo giorno, con il conteggio dei morti, con l’odio verso gli ebrei che i palestinesi coltivano con cura ed insegnano ai loro giovani, con due potenti organizzazioni terroristiche che da nord e da sud minacciano di cancellare questo stato ebraico, con uno stato che ha alle spalle millenni di storia fiabesca che vuole annientare questo staterello e con i massimi consessi internazionali che non hanno nulla da eccepire.
Per mettere meglio a fuoco il significato profondo della separazione in un “prima” ed un “dopo”, potrà essere utile leggere alcune frasi di quanto ebbe a scrivere Elie Wiesel, premio Nobel per la pace, sopravvissuto ad Auschwitz, scrittore e maitre à penser tra i massimi dello scorso secolo. Wiesel scrisse questo commento il 12 giugno 1967, alla fine della guerra iniziata 6 giorni prima.
“Sarà arduo descrivere come, in mezzo ad un mare di odio, un minuscolo esercito abbia sconfitto ed umiliato molte orde ben equipaggiate di chissà quanti stati arabi. Fra duemila anni, la gente considererà questi eventi nel modo in cui pensiamo alla descrizione dei Maccabei e delle loro vittorie…Domenica scorsa gli arabi ed i loro alleati stavano minacciando tronfi Israele che, se avesse fatto una ulteriore mossa, avrebbe dovuto pagare con la propria esistenza. E poche ore dopo i nostri eroi ebrei avanzavano, ed il mondo intero, trattenendo il fiato, seguiva ogni loro movimento…Ogni ora, un altro governo arabo dichiarava guerra ad Israele. L’Egitto, la Giordania, la Siria, lo Yemen, il Libano, l’Arabia Saudita. E poi: il Marocco, la Tunisia, l’Algeria,. In Tunisia una folla eccitata fece un pogrom nel quartiere ebraico. Altri paesi musulmani, o parzialmente musulmani, si affrettarono a fare altrettanto in questa guerra santa. La Malesia, il Sudan, il Mali, la Guinea ed altri ancora…Come potevamo aspettarci di essere salvati, sapendo che il nemico contava decine di milioni, addirittura centinaia di milioni di gente, contro soli due milioni di ebrei in Israele?…E poi, fra Pesach ( la Pasqua ebraica) e Shavuot (Pentecoste), il miracolo di Hanukka (la vittoria dei Maccabei ) si ripeté. Non ci volle molto prima che il nemico che supponevamo potente rimase senza parole e perse la calma. Perfino l’ambasciatore sovietico alle Nazioni Unite, Nikolai Fedorenko, cambiò improvvisamente tono….Fu come se un regista teatrale, che non conosceva bene i suoi attori, improvvisamente scambiasse i loro ruoli: coloro i quali si erano ferocemente opposti a noi chiedevano pietà, ed i loro protettori ora prendevano le distanze da loro. In una notte, l’atmosfera al Consiglio di Sicurezza dell’ONU divenne irriconoscibile. Noi tutti dobbiamo recitare una preghiera di ringraziamento per aver avuto in sorte il privilegio di essere testimoni di questi eventi…Per gli ebrei nel mondo questi eventi sono una profonda fonte di orgoglio. ..Raramente come popolo, sentiamo una connessione così profonda gli uni con gli altri, di lealtà verso i più puri princìpi che sgorgano dalla nostra storia condivisa. Ricordate come migliaia di giovani ebrei assediarono i consolati israeliani pregandoli di poter essere mandati come volontari in Israele? Ricordate le dimostrazioni di massa nelle strade? E l’infinità di ebrei, inclusi i più poveri fra i poveri, che donarono i loro scarsi risparmi alle raccolte che si facevano? …Coloro che avevano pensato che gli ebrei potessero essere impauriti da potenti eserciti si sbagliarono, e coloro che pensarono che si potesse separare lo stato ebraico dal popolo ebraico sparso nel mondo chiaramente ci avevano sottostimati”.
Questo commento, pubblicato da The Forward, è stato tradotto dallo yiddish da Chana Pollack. In esso leggiamo l’emozione di quei giorni, ma non basta per farci ricordare l’angoscia che aveva attanagliato gli ebrei prima del fatidico 12 giugno. E certamente un felice ma poco profetico Elie Wiesel non aveva potuto immaginare allora quanta ostilità, quante calunnie, quanto odio, quanto antisemitismo e quanti morti quella folgorante vittoria avrebbe comportato nei decenni che seguirono.