Editoriali

Fare in fretta

Se l’obiettivo della guerra contro Hamas, iniziata da Israele a seguito dell’eccidio da esso perpetrato il 7 ottobre 2023, era di sconfiggere il nemico, come è di prassi l’obiettivo di ogni guerra, dopo diciassette mesi non è stato raggiunto. È inutile consolarsi sottolineando che Hamas è stato fortemente depotenziato, che i suoi principali leader sono stati uccisi, che la sua struttura militare operativa è stata ridotta notevolmente, che non è più in grado di lanciare migliaia di razzi  su Israele, che non governa più tutta la Striscia ma solo parte di essa. Hamas è ancora in piedi e ancora in grado di combattere nonostante le vaste perdite e la ingente diminuzione della sua capacità aggressiva. La vittoria, dunque non può essere ancora proclamata.

Se l’altro obiettivo della guerra era la liberazione dei 251 ostaggi detenuti da Hamas, nonostante la maggioranza di essi sia stata liberata, senza contare quelli uccisi, nella Striscia ne permangono su 58, ancora 21 vivi. Anche questo obiettivo non è stato raggiunto totalmente.

Allo stesso tempo, a Gaza, ridotta in buona parte ad un ammasso di macerie, la popolazione si trova a doversi confrontarsi con le inevitabili condizioni drammatiche della guerra. Dopo avere provveduto con regolarità ad inviare centinaia di camion contenenti viveri, per due mesi Israele aveva deciso di sospenderli a causa del loro saccheggio sistematico da parte di Hamas. Questa decisione ha inevitabilmente provocato l’accusa che si esso volesse affamare la popolazione attraverso una carestia programmata. Niente di più falso, ma è un’altra delle accuse che si assommano a quelle già lanciate e che si raggruppano tutte sotto il cappello dell’accusa principale, di volere genocidiare gli abitanti della Striscia.

Ieri il ministro degli Esteri della Gran Bretagna, David Lammy, ha lanciato contro Israele una durissima requisitoria, che segue le aspre critiche della Francia e le dichiarazioni dell’Alto rappresentante dell’Unione Europea, Kaja Kallas di volere rivedere gli accordi di cooperazione commerciale tra la UE e Israele, se la situazione a Gaza non migliorerà. Da Washington, nonostante la Casa Bianca non abbia messo Israele sotto torchio come faceva quando il presidente era Joe Biden, sembra non spirare un vento del tutto favorevole. Trump, non è un mistero per nessuno, desidera che la guerra abbia termine e non ha disponibilità a trascinarla a oltranza.

Sono molteplici e intersecate le ragioni che non hanno ancora permesso a Israele di vincere la guerra più lunga dalla sua fondazione ad oggi. Dalla presenza degli ostaggi che ha impedito un attacco massiccio volto alla conquista dell’enclave, dalla riluttanza del comando miltare israeliano a porsi questo obiettivo, dalla difficoltà operativa incontrata su un terreno, dalle interferenze americane sotto l’Amministrazione Biden, volte a commissariare il conflitto imponendogli le proprie priorità, dai negoziati con Hamas, l’ultimo voluto da Trump, che hanno ulteriormente allungato i tempi, dal rifornimento continuo di viveri, mai visto in nessun altro teatro di guerra, che ha avvantaggiato Hamas. Tutto questo ha fatto sì che la guerra si trascinasse fino ad oggi. Ma è un trascinamento che non può durare ancora a lungo.

Israele può scrollare le spalle di fronte al montare della pressione internazionale nei suoi confronti, dell’aumento esponenziale dell’odio e della propaganda atta a rappresentarlo come uno Stato criminale, ci ha fatto il callo, ma non può esimersi, arrivato a questo punto, dal chiudere una guerra che è durata troppo a lungo.

La natura umorale e ondivaga di Trump è una ipoteca troppo grossa, e il momento in cui l’unico vero alleato che per Israele conta, gli Stati Uniti, inizino ad aggiungersi al coro di chi chiede la fine della guerra, potrebbe non essere lontano. Finirla senza avere sconfitto Hamas, sarebbe l’esito peggiore, anche se, nel frattempo, gli ultimi ostaggi avessero fatto ritorno a casa.

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