Editoriali

L’accerchiamento di Israele

Nei quattro anni dell’amministrazione Trump, la più filo-israeliana dal dopoguerra a oggi, i perenni odiatori e diffamatori di Israele non trovavano più nella Casa Bianca ambiguità o ventri molli relativamente al conflitto arabo-israeliano poi riconfigurato strumentalmente dopo la Guerra dei Sei Giorni come israeliano-palestinese.

Donald Trump aveva costruito intorno allo Stato ebraico una barriera atta a salvaguardarlo il più possibile da azioni ostili, agendo concretamente in modo da sbarazzarsi risolutamente da una serie di impicci e impacci, che ingombravano la strada come pesanti scorie. Tuttavia, non era un mistero per nessuno, in primis per Israele, che una volta che il presidente amico sarebbe uscito dalla Casa Bianca, la musica sarebbe tornata quella di sempre. Dunque, appena Joe Biden lo ha sostituito ecco che giunge la decisione della Corte Penale Internazionale di perseguire Israele per supposti “crimini di guerra” che avrebbero avuto luogo durante l’ultimo conflitto a Gaza, quello dell’estate del 2014. Si è trattato dell’apripista in un contesto in cui era già annunciata la ritessitura della vecchia tela dell’accordo nucleare con l’Iran.

Di nuovo a bordo, nell’amministrazione Biden, si sono imbarcati tutta una serie di burocrati di lungo corso che avevano già apparecchiato l’accordo originario sotto Obama, e la cui ostilità nei confronti di Israele è ben nota. Si attende ora, prima delle prossime elezioni in Iran a giugno, che un nuovo accordo venga siglato nonostante il vecchio adagio reciti che la gatta frettolosa fece i gattini ciechi.

Bisogna fare presto, perchè se dovesse vincere l’ala dei pasdaran, l’Iran diventerebbe meno concilante, e gli Usa dovrebbero fare concessioni ancora più vistose di quelle che sarebbero pronti a fare adesso. Meglio eventuali gatti ciechi che nessun gatto. Ma vedremo.

Nel mentre, si consumano a Gerusalemme scontri tra la polizia israeliana e facinorosi palestinesi. La colpa, naturalmente è di Israele. Così ci informa Erdogan, ma non solo, una parte consistente del mondo arabo gli va dietro, e anche il Bahrein. Ma non si era forse inaugurata una nuova era di concordia con gli Accordi di Abramo? Cosi annunciavano giulivi gli speranzosi. Non sembrerebbe.

Gli scontri hanno luogo sul Monte del Tempio, o Spianata delle Moschee. I provocatori sarebbero gli ebrei. Chiaramente. Anche qui assistiamo a un canovaccio vetusto, risale agli anni ’30, quando, a sobillare la folla araba (allora dei palestinesi non c’era traccia) era Amin Al Husseini, il Mufti filonazista di Gerusalemme. Il casus belli era sempre la Moschea di al-Aqsa che secondo la fola propagata ad arte dal Mufti e dai suoi sodali, i sionisti volevano distruggere.

Dobbiamo fare un salto di sei anni, e arrivare al 2015 quando Abu Mazen, in un discorso pronunciato a Ramallah affermava perentorio l’assoluta giurisdizione araba sulla Spianata e, al contempo, la mancanza di diritto da parte degli ebrei di contaminarne il suolo con i loro “piedi sporchi”. Due giorni dopo, L’Unione Internazionale degli Studiosi Musulmani, invitava a raccolta i palestinesi a difesa della moschea in pericolo chiedendogli di insorgere contro Israele. Veniva postata su Twitter una immagine della polizia israeliana in assetto antisommosa pronta a entrare all’interno della moschea dove si era rifugiato un manipolo di palestinesi muniti di pietre e moltov pronte per essere usate contro i fedeli ebrei in visita al Monte del Tempio. Lo scopo della foto era quello fraudolento di mostrare l’aggressione israeliana alla moschea in modo da esacerbare gli animi. Si replica oggi, con la comunità internazionale, leggisi UE in prima linea a condannare Israele per le violenze di questi giorni, aggiungendo, la riprovazione per la prospettata evacuazione da Gerusalemme Est, a Sheikh Jarrah, di una settantina di palestinesi dalle abitazioni in cui risiedono. Trattasi di un contenzioso giuridico che si trascina da anni, e che è ora giunto a una richiesta di appello alla Suprema Corte la quale dovrebbe pronunciarsi a breve.

C’è, a monte della richiesta dello sgombro, una legge del 1970 che prevede la restituzione di proprietà ebraiche confiscate ai residenti a seguito dell’occupazione giordana della Cisgiordania e di Gerusalemme Est. Sarebbe questa la fiamma che avrebbe fatto detonare la polveriera sotto Ramadan e in vista del 54esimo anniversario dell’unificazione di Gerusalemme che cadrà lunedì.

Una disputa legale tra privati cittadini è stata trasformata abilmente in una questione nazionale. La situazione presentava una troppo irresistibile opportunità per la propaganda. Settanta palestinesi, a rischio di essere evacuati dalle loro abitazioni da nazionalisti israeliani. Che quest’ultimi abbiano un diritto legale riconosciuto sulle abitazioni è del tutto secondario. La propaganda aborre i fatti e la realtà.

Ovviamente, non viene minimamente messa in luce la questione giuridica, e il fatto che non si tratterebbe di una espropriazione o di un atto di confisca, che c’è una disputa, che ci sono delle sentenze. Tutto questo deve sparire dalla scena. A supporto dei palestinesi dagli Stati Uniti, nell’epoca post-Trump, si levano le voci del soccorso rosso Dem. Bernie Sanders, Elizabeth Warren e l’immancabile Alexandra Ocasio Cortez, unilatralmente accusano Israele di violenza e di sopruso. Gli Usa devono intervenire. La UE lo ha già fatto, ufficialmente. L’eventuale evacuazione dei settanta palestinesi da Sheikh Jarrah equivarrebbe a “un crimine di guerra”. L’ex procuratore capo della Corte Penale Internazionale, disconosciuta sia dagli Usa che da Israele, Fatou Bensouda, istitutrice dell’istruttoria contro Israele per i fatti del 2014, non potrebbe essere che d’accordo.

Tout se tient magnificamente.

 

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