Stati Uniti e Medio Oriente

Amici problematici: Israele e l’amministrazione Biden

Da quando si è insediata alla Casa Bianca, l’amministrazione Biden non ha mancato – a parole – di manifestare amicizia e vicinanza al suo principale alleato in Medio Oriente: Israele. Ciò è avvenuto anche durante il conflitto di maggio tra Israele e Hamas.

Tuttavia a una più attenta analisi dei fatti e delle azioni intraprese da Joe Biden e soprattutto dal suo Segretario di Stato, Antony Blinken, evidenzia una realtà molto diversa dalle parole di amicizia e di sostegno tanto sbandierate. Proviamo a leggere i capitoli principali che hanno caratterizzato questi pochi mesi di gabinetto Biden.

Fin dal suo insediamento, e tramite tutti i suoi più importanti rappresentanti governativi Antony Blinken, Jake Sullivan e William Burns, l’amministrazione Biden ha posto in cima alla sua politica mediorientale la ripresa dell’accordo sul nucleare con l’Iran (Joint Comprehensive Plan of Action). Questo nonostante la forte opposizione di tutti gli alleati più importanti dell’area: Israele, Arabia Saudita, Emirati Arabi. Che questa decisione sia considerata un grave rischio per la sicurezza di Israele lo ha dichiarato anche il nuovo esecutivo capeggiato da Naftali Bennet, in maniera molto più diplomatica e in camera caritatis, ma nella sostanza negli stessi termini espressi da Benjamin Netanyhau. Per gli americani questo accordo rimane una priorità assoluta.

Una delle primissime decisioni di Joe Biden è stata quella di riprendere il copioso finanziamento all’ANP di Abbas interrotto dall’amministrazione Trump. La decisione di Donald Trump fu dettata dal palese e reiterato utilizzo da parte dei palestinesi dei fondi americani per pagare gli stipendi ai terroristi pluri omicidi e alle loro famiglie. La volontà dell’amministrazione Biden di riprendere questo tipo di “aiuto” economico contrasta apertamente con una legge americana: il Taylor Force Act, il quale proibisce espressamente il finanziamento di organizzazioni o amministrazioni implicate direttamente o indirettamente nell’uccisione di cittadini americani. A Samantha Power, responsabile dell’USAID è stato dato mandato di di trovare i modo per aggirare la legge.  Va ricordato che la Power assieme a John Kerry fu la maggiore responsabile dell’approvazione della Risoluzione 2334, una delle risoluzione maggiormente anti israeliane mai approvate dall’ONU.

Allo stesso modo Biden ha deciso di rifinanziare l’agenzia ONU per i profughi perenni: l’UNWRA, sulla quale, recentemente, perfino la UE ha iniziato a nutrire dei dubbi, da  quando un rapporto indipendente appena pubblicato – per anni volutamente insabbiato – ha dimostrato come i fondi internazionali ricevuti siano stati utilizzati per pubblicare testi scolastici palesemente antisemiti, per non parlare d’altro.

Dal punto di vista politico, l’amministrazione Biden, per voce soprattutto del Segretario di Stato Blinken, ha espresso la forte volontà di “riposizionare” la politica americana in posizione di “equidistanza” tra Israele e l’Autorità Palestinese dopo che – a detta del nuovo Presidente – l’America si era troppo sbilanciata a favore dello Stato ebraico. Ma in che cosa constava lo “sbilanciamento” dell’amministrazione Trump? Nella sospensione dei lauti finanziamenti americani all’ Autorità Palestinese e all’UNRWA. Ma, a ben vedere, la decisione di Trump è stata presa, per quel che concerne il finanziamento dell’ANP, in base ad una legge – il già citato Taylor Force Act – che è una legge approvata in maniera bipartisan dal Congresso americano e quindi perfettamente in linea con la volontà di tutto lo schieramento politico americano. Mentre la sospensione degli aiuti all’UNWRA, è stata presa per la manifesta incapacità di questa organizzazione di adempiere da oltre 70 anni ai suoi obblighi: risolvere la questione dei profughi, i quali anzi sono aumentati a dismisura (dai 600.000 iniziali ad oltre 5.500.000). Oltre al fatto che è pesantemente collusa con organizzazioni terroristiche (molti suoi dipendenti sono affiliati ad Hamas) e pubblica da decenni materiale antisemita che distribuisce nelle scuole tramite i testi scolastici.

Un altro atto “sbilanciato” di Trump, a detta dei democratici, è stato quello di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come capitale di Israele e spostare lì l’ambasciata da Tel Aviv. Tuttavia è da sottolineare che questa decisione “sbilanciata” non è stata una “improvvisazione” di Trump, come molti democratici sostengono, bensì fu la ratifica presidenziale di una legge – the Jerusalem Embassy Act – approvata nel lontano 1995 dal Senato, con una maggioranza di 95 a 3, e dal Congresso, con una maggioranza di 347 a 37, ma sempre disattesa e rinviata dai presidenti che lo avevano preceduto. Quindi un atto dovuto e approvato a larghissima maggioranza da entrambi gli schieramenti politici. Per il momento Anthony Blinken ha dichiarato che è intenzione sua e del Presidente di lasciare l’ambasciata a Gerusalemme però per “bilanciare” la cosa ha chiesto al governo israeliano di poter riaprire un consolato americano nella zona est di Gerusalemme facente funzione di ambasciata per i palestinesi. Il governo uscente di Netanyhau ha bocciato la proposta- Si attende la decisione che prenderà il nuovo esecutivo Bennet. C’è inoltre un’ulteriore considerazione è da fare. In che cosa consiste il “bilanciamento” tra la decisione di spostare l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme che è semplicemente un atto dovuto in forza di una legge approvata oltre 20 anni prima, ma sempre disattesa, e l’apertura di un consolato (una ambasciata mascherata) in aperto contrasto con gli Accordi di Oslo, dei quali gli stessi USA sono garanti?

Un terzo punto della politica dell’amministrazione Trump che “doveva essere ribilanciato” è la cosiddetta “dottrina Pompeo” relativa alla presenza ebraica in Giudea e Samaria. Relativamente a questa, l’allora Segretario di Stato Mike Pompeo, dopo una seria analisi con i suoi consigliari legali, dichiarò che la presenza ebraica in Giudea, Samaria e Gerusalemme è perfettamente legale nei termini del diritto internazionale. Del resto era una posizione espressa, anche se con una forte ambiguità da quasi tutte le amministrazioni USA dal ’67 in poi. Le uniche eccezioni a questa visione furono quelle delle amministrazioni Carter e Obama (della quale Biden fu vicepresidente). E’ importante sottolineare che questa “legalità” è sancita anche dagli Accordi di Oslo sottoscritti dall’ANP dei quali gli USA sono garanti. Quindi anche in questo caso non si capisce in base a quale principio, questa amministrazione l’ha voluta dichiarare illegale e per giunta in nome di una presunta “equidistanza”.

Per ora l’equidistanza di obamiana memoria ha portato solamente a un enorme irrigidimento delle posizioni palestinesi che, dal 2008 non vogliono neanche sedersi attorno ad un tavolo prima che tutte le loro richieste siano soddisfatte.

Un ulteriore gesto di amicizia e di “equidistanza” americana è frutto dell’aggressione armata che Israele ha subito a maggio ad opera dei terroristi di Hamas. Infatti, a conclusione degli 11 giorni di scontri e dopo che Hamas ha lanciato oltre 4.000 razzi contro Israele, quest’ultimo ha chiesto agli USA un aiuto militare (come si conviene tra alleati e “amici”) allo scopo di reintegrare le migliaia di missili che sono stati utilizzati dal sistema antimissile Iron Dome per intercettare i razzi diretti alle città israeliane. Dopo una dura opposizione all’interno del partito democratico, l’amministrazione americana, ha deciso di aiutare Israele acconsentendo alla sua richiesta. Ma quale sarà il prezzo politico, che Israele, dovrà pagare per questa decisione? Anche in questo caso un normalissimo atto (un aiuto militare) verso un alleato aggredito militarmente, come avviene del resto in molti teatri di tutto il mondo, nel caso di Israele, diventerà “un favore” del quale alla prima occasione dovrà pagarne il conto politico.

Un’ulteriore capitolo di questa “speciale amicizia” – come l’ha definita Biden – riguarda la sovranità di Israele sulle alture del Golan. A tale proposito sono circolate numerose e ben circostanziate voci, nei giorni scorsi, che indicavano come Blinken (quindi anche Biden) fosse intenzionato a capovolgere la decisione di Trump di riconoscere la piena sovranità di Israele su queste alture strategiche. Dopo alcuni giorni è arrivata una nota del Dipartimento di Stato con la quale Blinken stesso negava che vi sia intenzione da parte dell’amministrazione di disconoscere la decisione presa da Trump. Però, ad una più attenta lettura della nota ufficiale, si scopre che questa decisione è “limitata alla situazione attuale” cioè alla presenza di forze iraniane vicino al confine di Israele che “pongono una seria minaccia alla sicurezza di Israele”. Ma se ad esempio le forze iraniane, all’interno di un accordo più ampio come il JCPA, fossero semplicemente allontanate dal confine ad una distanza tale da non “essere più considerate una minaccia” allora decadrebbero i presupposti per i quali questa amministrazione vede Israele nel pieno diritto di esercitare la propria sovranità sul Golan?

Anche in questo caso si ha la forte sensazione che “la speciale amicizia” sia più a parole che nei fatti e che questa legittima conquista di Israele potrebbe costituire una possibile merce di scambio tra gli USA e l’Iran o la Siria o altri che di volta in volta si dovranno accordare con gli USA e a pagarne il conto sarà per l’ennesima volta Israele. Stranamente, ad esempio, non è emerso che l’amministrazione Biden abbia la minima intenzione di mettere in discussione la decisione di Trump di riconoscere la sovranità marocchina sul Sahara Occidentale, dove il Marocco ha senza dubbio molti meno diritti di sovranità di quanti Israele ne abbia sul Golan.

In conclusione il nuovo governo di Israele, quello del “grande cambiamento”, avrà dinnanzi a se mesi davvero difficili, e tra i punti più ostici ci sarà quello di gestire “la speciale amicizia” con l’amministrazione Biden.

 

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