Editoriali

Come cercare di fare perdere la guerra a Israele

Come cercare di fare perdere a Israele guerra? La risposta a questa domanda si articola su due fronti. Il primo riguarda gli Stati Uniti, il principale alleato dello Stato ebraico e quello che, dal 7 ottobre in poi, pur continuando a fornire aiuto militare, ha iniziato sempre di più a rimarcare distanze e malcontento sulla conduzione della guerra.

Bisogna procedere con ordine. Dal sincero cordoglio e dalla costernazione a seguito del barbaro eccidio del 7 ottobre perpetrato da Hamas, e dal viaggio in Israele di Joe Biden, dalla solidarietà espressa, dai gesti concreti, l’invio di forze e portaerei per mostrare all’Iran e a Hezbollah, nei giorni subito dopo la risposta israeliana su Gaza, che gli Stati Uniti non avrebbero permesso un allargamento del conflitto.

Il tempo passa veloce, i morti civili a Gaza aumentano anche se il loro numero è molto inferiore a quello dei morti nelle guerre americane in Iraq, ma la propaganda contro Israele è da sempre la più forte e pervasiva, e si arriva alla surreale accusa di genocidio, nonostante i morti dichiarati, tra cui non si distingue quali sono i miliziani di Hamas e i civili veri, non siano neanche l’uno per cento degli abitati di Gaza.  La Casa Bianca inizia a rimodulare il suo appoggio. Improvvisamente la reazione israeliana diventa “over the top”, i bombardamenti, “indiscriminati”, i palestinesi non vanno “deumanizzati”. In Cisgiordania, quattro coloni vengono colpiti da sanzioni decise a Washington a causa di “violenza intollerabile”, cioè sassate, ferimenti, intimidazioni, accuse mosse da ONG, e dalle quali  viene omesso il contesto, la scia continua di omicidi da parte palestinese che ha insanguinato la Cisgiordania nel 2023. Su questa virata pesano due fattori, la campagna elettorale americana, e, in particolare, lo scontento della comunità musulmana con epicentro in Michigan nei confronti di Joe Biden, il rischio dell’astensione in uno Stato chiave, l’incalzare dell’avversione progressista verso Israele.

Washington ha ora bisogno che si giunga a un accordo con Hamas per la liberazione degli ostaggi, prima del 10 marzo, inizio del mese sacro di Ramadan. Costi quel che costi? L’importante è ottenerlo, poi si vedrà. Intanto si fermerà la guerra per almeno sei settimane, utili per non farla riprendere, per abortire l’offensiva di Israele su Rafah. Chi non vuole  la tregua viene bollato come estremista, è il caso di Bezalel Smotrich e di Itamar Ben Gvir.

Netanyahu tiene botta, e risponde per le rime quando Joe Biden, sotto dettatura, dichiara che con l’attuale governo, Israele perderà il supporto internazionale. Citando un sondaggio recente, il primo ministro israeliano afferma che negli Stati Uniti l’appoggio al governo in carica e all’obiettivo di sradicare Hamas è maggioritario.

Nella dichiarazione di Biden c’è un evidente messaggio, rivolto allo “stronzo” Netanyahu, cambia alleati o, vieni a più miti consigli se non vuoi problemi grossi. Netanyahu non si fa intimidire. Sa che un eventuale boicottaggio di Israele da parte americana mentre sta combattendo una guerra, potrebbe costare caro a Biden. Otterrebbe sì l’approvazione islamica e in parte il plauso democratico, ma darebbe al campo repubblicano e a Trump un assist formidabile. Il sottotesto di Netanyahu è: fai attenzione, gli Stati Uniti sono a maggioranza per la sconfitta di Hamas.

Biden ha bisogno di un cessate il fuoco. Glielo chiede Dearborn, http://www.linformale.eu/dearborn-vale-bene-una-messa/ glielo chiede la parte più radicale del partito democratico, glielo chiede la Chiesa Episcopale afroamericana, glielo chiede il Dipartimento di Stato, ma il cessate il fuoco non è nell’interesse di Israele. L’interesse di Israele è di eliminare da Gaza la minaccia di Hamas, ripristinare la sicurezza a sud, evitare un altro 7 ottobre. Le amministrazioni americane passano, Israele resta.

Il secondo fronte è quello interno. È quello rappresentato dalla sinistra, dal radicalismo di Ehud Barak, per il quale, Netanyahu è diventato un’ossessione, è quello di chi dice che la guerra a Gaza non può essere vinta e che l’obiettivo principale è la liberazione degli ostaggi. Sono i nemici di Netanyahu, sono i conciliatori, sono quelli che, sì, la sicurezza di Israele è importante, certo, ma prima di tutto va tolto di mezzo il governo in carica e va sostituito con un governo aperturista, più pronto ad accordarsi con l’agenda americana che vorrebbe dissotterrare il cadavere dello Stato palestinese seppellito da due intifade, soprattutto la seconda, quella più violenta, per imporlo, obtorto collo ai recalcitranti.

Barak, di suo, aveva già concesso ad Arafat nel 2000, tutto il possibile, e fu grazie al rifiuto arabo se da 24 anni non sorge uno Stato arabo nel cuore di Israele, di cui, in questi ultimi sedici anni, Hamas ha offerto un campione a Gaza culminato con la mattanza atroce di ottobre.

Una guerra si può vincere solo sconfiggendo l’avversario, chi l’ha provocata. Non esistono vittorie a metà, si chiamano sconfitte. Rafah deve essere l’obiettivo successivo, la continuazione, prima del finale di partita, nonostante Joe Biden, nonostante coloro, all’interno di Israele, per i quali la salvezza degli ostaggi vale più del futuro del paese.

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