Israele e Medio Oriente

Daniel Pipes illustra in che modo Israele può vincere il conflitto palestinese

Questa intervista di Seth J. Frantzman con Daniel Pipes è apparsa originariamente sul Jerusalem Post e quindi sul Middle East Forum. Pubblichiamo qui la seconda versione.

(N.d.R)

Con l’insediamento del nuovo governo israeliano, il Paese si trova di fronte a un bivio. Dopo un anno e mezzo di governo radicato nel centro-Sinistra, è salita al potere una coalizione di Destra guidata da Benjamin Netanyahu.

Netanyahu ha guidato Israele in passato, pertanto, il Paese potrebbe finire per perseguire le stesse politiche adottate in passato. Tuttavia, c’è anche la possibilità per Israele di compiere nuovi passi che cambierebbero la sua traiettoria a lungo termine e anche quella dei palestinesi.

A tal fine, lo storico americano Daniel Pipes, presidente del Middle East Forum sin dalla sua fondazione nel 1994, sta lavorando a un libro sul conflitto israelo-palestinese. Di recente, Pipes si è recato in Israele per incontrare figure chiave e anche per discutere la sua visione della vittoria di Israele nell’attuale conflitto.

Per quale motivo si trova a Gerusalemme?

Sei mesi fa ho incontrato un editore che mi ha suggerito di scrivere un libro sulla fine del conflitto israelo-palestinese. Come avrei potuto rifiutare? Ho iniziato a scriverlo a fine settembre e spero di ultimarlo entro l’anno. Attualmente, sono in Israele per chiedere a una serie di persone quali sono i punti di vista israeliani su questo argomento.

Qual è il suo punto di vista?

Penso che una giusta risoluzione del conflitto comporti che i palestinesi perdano la speranza. Solo quando essi rinunceranno al loro obiettivo bellico di eliminare Israele, il conflitto avrà fine. Israele deve vincere e i palestinesi devono perdere. Questa tesi può sorprendere perché contraddice puntualmente il presupposto degli Accordi di Oslo che promuove non la vittoria, ma un’idea di speranza e di compromesso palestinese che teorizza che i bei appartamenti, le auto di ultimo modello, le scuole prestigiose e un’eccellente assistenza medica conferirebbero prosperità ai palestinesi, de-radicalizzandoli e rendendoli veri partner per la pace. Ma, quasi trent’anni dopo, tutti i sondaggi e le innumerevoli prove aneddotiche indicano che la maggior parte dei palestinesi continua ad accarezzare l’idea di eliminare lo Stato ebraico. Questo obiettivo va contrastato facendoglielo abbandonare, e non infondendo speranza. Ciò calza uno schema generale, secondo cui le guerre cercano di togliere ogni speranza al nemico.

Ma il processo di Oslo non è defunto da tempo?

Sì, gli Accordi di Oslo sono stati screditati e quasi dimenticati, esecrati tanto dai palestinesi quanto dagli israeliani. Nonostante ciò, il loro obiettivo principale di arricchire i palestinesi rimane molto vivo. Ad esempio, il piano Trump intitolato “Dalla pace alla prosperità” offre ai palestinesi 50 miliardi di dollari in cambio del fatto che lascino in pace Israele. Ho appena incontrato  Avigdor Liberman e anche lui ha detto di voler “rimpiazzare il jihad con la prosperità” e trasformare Gaza nella “Singapore del Medio Oriente”. Lo stesso approccio si estende anche agli Stati arabi, come dimostrato dalla recente firma da parte di Israele di un generoso accordo sulla definizione dei confini marittimi con il Libano.

Cosa c’è di sbagliato?

La generosità verso i nemici è contraria alla storia e al buon senso. Storicamente, i nemici si sono assediati e si sono fatti morire di fame a vicenda, impedendo i rifornimenti di cibo, di acqua e di beni materiali: questa tattica prosegue ancor oggi con la rottura dei rapporti economici con la Corea del Nord, la Russia e con altri Stati canaglia. Il buon senso lo conferma, perché una rissa a scuola continua fino a quando una parte non si arrende. L’approccio tradizionale alla guerra cerca ragionevolmente di sconfiggere il nemico, e non di coccolarlo.

Ma Israele non aveva già sconfitto i suoi nemici nella Guerra dei Sei Giorni del 1967?

Alcuni di loro, sì. Quella straordinaria vittoria sul campo di battaglia, forse la più grande mai registrata nella storia umana, mozzò il fiato ai Paesi arabi, che subito dopo deposero in gran parte le armi contro Israele. Ma mentre gli Stati arabi si ritiravano, i palestinesi presero il loro posto. Sebbene i palestinesi siano oggettivamente molto più deboli di quegli Stati, privi di forza militare o economica, si sono dimostrati molto più decisi nel raggiungere i propri scopi; per loro, eliminare Israele è una questione di identità.

In cosa consiste la guerra palestinese contro Israele?

Questa guerra inizia con la politica del rifiuto, il rifiuto palestinese di accettare tutto ciò che riguarda l’Ebraismo, gli ebrei, il sionismo o Israele in Eretz Israel. Questa ideologia è nata un secolo fa con il leader palestinese Amin al-Husseini. Sebbene la politica del rifiuto si sia evoluta ed in qualche modo si sia frammentata, permane il consenso palestinese e la tensione dominante della politica palestinese. L’Autorità Palestinese e Hamas hanno tattiche e risorse umane differenti, ma condividono il loro obiettivo, che è quello di eliminare lo Stato ebraico. Questo spiega l’inefficacia delle numerose concessioni israeliane. Attualmente, la politica del rifiuto ha due fronti: il violento campo di battaglia fatto di attentati condotti con veicoli lanciati sulla folla, di accoltellamenti, di sparatorie e di attentati dinamitardi, e il campo di battaglia politico costituito dalla delegittimazione attraverso l’istruzione, il lobbismo e il Movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS). L’analista strategico israeliano Efraim Inbar, il quale si è esclusivamente focalizzato sulla violenza, definisce i palestinesi un “fastidio strategico”. Ma questa definizione ignora l’ampio sostegno nei loro confronti, soprattutto fra i musulmani e la Sinistra. Si pensi all’Iran, alla Turchia, a Jeremy Corbyn, a Bernie Sanders e all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La delegittimazione è pericolosa e crescente ed è di questo problema che cercherò di parlare.

Quali sono le differenze tra l’ostilità musulmana e quella della Sinistra?

Mentre l’ostilità musulmana verso Israele si oppone prettamente all’esistenza stessa di uno Stato ebraico, l’ostilità della Sinistra è basata in modo molto più restrittivo sulla Cisgiordania, su Gaza e su Gerusalemme. Ciò che conta di più per la Sinistra sono le condizioni degli abitanti di queste tre regioni geografiche e non questioni come la corsa al nucleare dell’Iran, i rapporti fra askenaziti e sefarditi, il prezzo del formaggio fresco o lo status dei cittadini musulmani di Israele. Puntualmente, sono più importanti la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme. La grande macchina pubblicitaria palestinese ha trasformato un problema globalmente minore in una questione estremamente importante. Israele fa fronte a una serie esclusiva di minacce che possono essere suddivise in sei tipi: armi di distruzione di massa, guerra convenzionale, conflitto a bassa intensità (o terrorismo), demografia, economia e delegittimazione. Sorprendentemente, Israele ha eliminato efficacemente le quattro minacce intermedie che ho menzionato, ma deve ancora affrontare il pericolo delle armi di distruzione di massa e della delegittimazione. La delegittimazione – e pertanto, i palestinesi – minaccia Israele non meno della proliferazione nucleare iraniana.

Come dovrebbe rispondere Israele alla delegittimazione?

Rendendola prioritaria quanto lo è violenza, riconoscendo che la politica del rifiuto non svanirà da sola, ma deve essere superata. Negli ultimi trent’anni, i governi israeliani hanno clamorosamente fallito. Dal 1993 al 2000 hanno attuato una politica di appeasement all’insegna del “vi daremo ciò che volete e voi ve ne starete tranquilli”. Poi è seguita, dal 2000 al 2007, una politica ancora più rovinosa dei ritiri unilaterali. Dopo di che, e fino ai giorni nostri, è arrivata la politica della non-politica, che consiste nel limitarsi a spegnere gli incendi. Attualmente, non c’è altro obiettivo che “falciare l’erba” o sperare di rimandare il combattimento per qualche anno. Questo, ovviamente, non basta. La politica corretta è quella di convincere gli abitanti della Cisgiordania, di Gaza e i residenti musulmani di Gerusalemme che Israele è forte e permanente, che hanno perso e dovrebbero rinunciare alla guerra contro Israele. L’obiettivo è sempre quello di costringerli ad abbandonare l’idea di eliminare lo Stato ebraico di Israele.Una volta che i palestinesi accetteranno questa realtà, anche loro ne guadagneranno, forse anche più degli israeliani. Liberatisi dalla loro ossessione irredentista, possono sfuggire alla situazione di povertà e oppressione in cui versano per costruire il loro sistema politico, la loro economia, la società e la cultura.

Le due parti non possono prosperare senza essere sconfitte, come nel caso dell’Irlanda del Nord?

È completamente diverso, perché in Irlanda del Nord tutti sono cittadini britannici. Un governo democratico non può sconfiggere la propria popolazione. Parallelamente, Israele non può sconfiggere i suoi cittadini musulmani.

I palestinesi non sono stati in gran parte sconfitti nella Seconda Intifada?

Sì, è vero, Israele ha tenuto sotto controllo quell’ondata di violenza. Ma farlo non ha portato a una sensazione di sconfitta, ma soltanto a un cambio di tattica. Yasser Arafat fece affidamento sulla violenza per abbattere il morale degli israeliani, per indurli a emigrare e a porre fine agli investimenti stranieri; Mahmoud Abbas non ha posto fine alla violenza quando è salito al potere nel 2004, ma ha focalizzato l’attenzione sulla delegittimazione internazionale di Israele, si rammenti la sua riprovevole affermazione fatta in Germania sul fatto che i palestinesi abbiano subito “50 olocausti”. Questa campagna sta andando bene, diffondendo l’antisionismo.

Tutti i palestinesi condividono la politica del rifiuto di Amin al-Husseini?

No. Sebbene tale politica abbia dominato per un secolo, circa un quinto dei palestinesi in tutto quel periodo si è opposto e ha fornito a Israele una serie di servizi. In Army of Shadows: Palestinian Collaboration with Zionism, 1917–1948, Hillel Cohen mostra l’importanza cruciale dell’aiuto offerto dai palestinesi all’Yishuv (la comunità ebraica in Eretz Israel prima della fondazione dello Stato di Israele): fornivano manodopera, commerciavano, vendevano terra, vendevano armi, consegnavano beni statali, fornivano informazioni sulle forze nemiche, diffondevano voci e dissensi, convincevano altri palestinesi ad arrendersi, combattevano i nemici dell’Yishuv e operavano persino dietro le linee nemiche. Cohen non lo dice, ma io sì: Israele non sarebbe nato senza l’aiuto dei palestinesi collaborativi. Ma erano e sono tuttora una minoranza, sono sempre stati e sono tuttora minacciati.

Che ne pensa del nuovo governo: il primo ministro entrante Netanyahu non crede nella forza?

Sì, ci crede, ma la forza non è sinonimo di vittoria. Gli ho parlato della vittoria di Israele e si è detto favorevole, senza però adottare l’idea. Lo capisco: Israele è oggetto di critiche costanti; se si ottenesse la vittoria di Israele sorgerebbero più problemi a breve termine. Pertanto, è più facile temporeggiare e continuare con lo status quo impiegando le forze di sicurezza per mantenere la calma, dispiegandole più come una forza di polizia che come una forza militare. La polizia non aspira alla vittoria, ma alla calma, non mira a distruggere proprietà né a causare danni alle persone.

E gli altri membri del nuovo governo?

Sto imparando a conoscere i nuovi uomini di potere. A mio avviso, il loro obiettivo non è vincere, ma la loro attenzione è rivolta a due idee pessime: Bezalel Smotrich vuole annettere l’intera Cisgiordania e Itamar Ben-Gvir vuole espellerne la popolazione palestinese. L’annessione significa aggiungere un paio di milioni di cittadini palestinesi di Israele o mantenerli in una posizione subordinata, due ricette per il disastro. L’impulso kahanista di espellere i palestinesi non solo non risolve nulla, ma crea molti nuovi problemi. Gli espulsi sono maggiormente dediti alla distruzione di Israele. La rabbia infuria in seno a Israele, fra gli ebrei della diaspora e nel mondo esterno in generale. Non si vince una guerra annettendo o spostando i nemici. Si vince imponendo loro la propria volontà.

Lei accetta la soluzione dei due Stati?

Sì, questa è la soluzione meno cattiva a lungo termine. Ma sottolineo a lungo termine. Può accadere soltanto dopo che i palestinesi avranno rinunciato alla loro guerra contro Israele, dopo un lungo periodo in cui gli ebrei che vivono a Hebron non affronteranno più pericoli di quelli che devono affrontare i musulmani che vivono a Nazareth; e quando Israele è solo un altro membro delle Nazioni Unite. Finché non arriverà quel giorno fausto ma lontano, preferirei che la Giordania governasse la Cisgiordania e l’Egitto Gaza.

Gli Accordi di Abramo e l’attenzione sull’Ucraina e sulla Cina cambiano le cose?

Non proprio. Gli Accordi di Abramo sono formidabili, sia di per sé sia ​​perché hanno indotto Netanyahu nel 2020 ad abbandonare il suo piano di annettere parti della Cisgiordania. L’Ucraina e la Cina abbassano i riflettori sul conflitto israelo-palestinese, il che è comunque una buona cosa. Ma le fiorenti relazioni di Israele con gli Emirati Arabi Uniti e altri Stati difficilmente sminuiscono la campagna palestinese di delegittimazione. Ed ogni volta che l’Autorità Palestinese o Hamas vogliono tornare sotto i riflettori, lo faranno immediatamente.

Israele in che modo dovrebbe gestire l’attenzione internazionale?

Riconoscendola come un dato di fatto e trovando il modo per affrontarla. Quando Hamas decide di lanciare missili su Israele, sa che verrà colpito militarmente, ma che otterrà il sostegno politico internazionale. Allo stesso modo, Israele sa che verrà colpito a livello internazionale, quindi dovrebbe approfittare della crisi per inviare un messaggio molto forte alla popolazione di Gaza che ha perso la guerra. In definitiva, la copertura mediatica conta meno della vittoria sul campo.

In pratica, come vince Israele?

Preferisco porre la vittoria di Israele come obiettivo politico, senza entrare nei dettagli strategici e tattici. Innanzitutto, è prematuro entrare nello specifico. In secondo luogo, approfondire questi argomenti distoglie l’attenzione dall’intento di stabilire l’obiettivo politico. Detto questo, Israele ha una straordinaria serie di leve grazie alla sua forza di gran lunga superiore a quella palestinese, e non solo militare ed economica. Un esempio creativo: il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman probabilmente vorrebbe aggiungere al-Aqsa alla sua collezione di luoghi sacri dell’Islam, specialmente in un momento in cui Teheran sfida il controllo saudita della Mecca e di Medina. Perché Israele non avvia negoziati con Riad su questo argomento, offrendo il fiore all’occhiello dell’Autorità Palestinese in cambio di piene relazioni diplomatiche e di un cambiamento nello status quo sul Monte del Tempio?

Israele può sconfiggere Hamas senza rioccupare Gaza?

Torno a ripetere che preferisco non discutere di strategie e tattiche ma, come mi si chiede, eccone una: Israele dichiara che un solo attacco missilistico da Gaza comporta la chiusura del confine di un giorno; pertanto, acqua, cibo, farmaci o carburante non possono arrivare a Gaza. Il lancio di due missili comporterà la chiusura di due giorni e così via. Garantisco che questo migliorerebbe rapidamente il comportamento di Hamas.

Israele deve sconfiggere anche i sostenitori di Sinistra dei palestinesi?

Ovviamente, no. Inoltre, sarebbe impossibile. Ma non è nemmeno necessario, perché sono semplici seguaci. Immagini che i palestinesi riconoscano la loro sconfitta e accettino davvero lo Stato ebraico: questo toglierebbe il terreno da sotto i piedi all’antisionismo di Sinistra. È difficile mantenere una posizione più cattolica di quella del Papa. Israele è fortunato che il suo principale nemico sia così piccolo e così debole.

Con il passare del tempo l’accettazione di Israele da parte dei palestinesi crescerà?

L’ex ministro Yuval Steinitz mi ha appena detto che il 75 per cento dei palestinesi è arrivato ad accettare l’esistenza dello Stato di Israele e vive una vita normale, ma io ne dubito. Un recente sondaggio condotto dal Palestinian Center for Policy and Survey Research ha rilevato che il “72 per cento dell’opinione pubblica (l’84 per cento nella Striscia di Gaza e il 65 per cento in Cisgiordania) afferma di essere favorevole alla formazione di gruppi armati come “Lion’s Den” che non prendono ordini dall’AP e non fanno parte dei servizi di sicurezza dell’Autorità Palestinese; il 22 per cento è contrario”. Sì, c’è una calma generale. Nell’albergo dove ci incontriamo, il Dan Jerusalem Hotel, sul Monte Scopus, il personale palestinese svolge tranquillamente il proprio lavoro e non accoltella nessuno. Ma in tempo di crisi, ad esempio, nel caso di un attacco missilistico di Hamas, eviterei di soggiornare in questo albergo o nella maggior parte degli altri hotel di Gerusalemme.

La precedente leadership israeliana sembra accettare l’idea di Micah Goodman di “ridurre il conflitto”, anche lei?

No. Lo vedo solo come uno dei tanti tentativi fatti finora per perfezionare il difficile lavoro di ottenere la vittoria. Tra le idee precedenti figuravano l’espulsione dei palestinesi con la forza o di loro volontà, lo schema secondo il quale la Giordania è la Palestina, la costruzione di nuovi muri di recinzione, la creazione di una nuova leadership palestinese, la richiesta di una buona governance, l’attuazione della Road Map, il finanziamento di un Piano Marshall, l’imposizione di un’amministrazione fiduciaria, l’istituzione di forze di sicurezza congiunte, la divisione del Monte del Tempio [in spazi separati per ebrei e musulmani, N.d.T.], la locazione di terreni, il ritiro unilaterale e così via. Niente di tutto questo ha funzionato e niente funzionerà. La sconfitta e la vittoria rimangono imperative.

La caduta della Repubblica islamica dell’Iran aiuterebbe?

Sì, il cambio di regime in Iran avrebbe ampie implicazioni per il Medio Oriente, ma non tanto per la guerra palestinese contro Israele. Il crollo politico dei mullah non porrà fine alla convinzione dei palestinesi che la politica del rifiuto funziona, che prevarrà la “rivoluzione fino alla vittoria”, che possono eliminare lo Stato ebraico. Israele non può delegare la vittoria.

Traduzione di Angelita La Spada

https://www.meforum.org/64032/how-can-israel-win-the-palestinian-conflict

 

 

 

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