Israele e Medio Oriente

Difendere le perdite di civili israeliani e il buonsenso, di Martin Sherman

Imponiamo ai nostri soldati innumerevoli restrizioni – sia giuridiche sia mentali. I nostri combattenti hanno più paura dell’Avvocato Generale Militare che di Yahya Sinwar [leader di Hamas]. Anziché sconfiggere il nemico, lo conteniamo… Conferenza stampa del ministro dell’Istruzione Naftali Bennett, del 19 novembre 2018 relativa a un diffuso disappunto per l’inadeguata risposta dell’IDF a mesi di violenza istigata da Hamas.

C’è sempre un costo per sconfiggere un male. Non è mai gratuito, purtroppo. Ma il costo del fallimento per sconfiggere un grande male è molto più elevato – L’allora portavoce della NATO, Jamie Shea, citato in “‘Il prezzo necessario’ delle perdite di civili israeliani”, BBC, 31 maggio 1999 – in risposta alle accuse di  ampie perdite di civili come risultato dei bombardamenti della NATO nella guerra dei Balcani del 1998-1999.

Le recriminazioni di Naftali Bennett contro ciò che molti cittadini israeliani hanno considerato come una debole risposta dell’IDF all’aggressione terroristica di Hamas lungo e attraverso il confine di Gaza, hanno avviato un acceso dibattito pubblico – con quasi tutto l’intero establishment, dal premier e il capo di Stato maggiore in poi, che ha fermamente condannato le sue dichiarazioni.

La legalità sta perdendo legittimità?

Tuttavia, alla luce di quello che sembra essere una crescente discrepanza tra il cittadino comune e l’apparato giuridico del paese, le parole di rimprovero di Bennett sembrano essere molto più vicine al sentimento pubblico di quelle dei suoi detrattori.

Anzi, il giorno prima della conferenza stampa di Bennett, l’Israel Democracy Institute, chiaramente di sinistra, aveva presentato un sondaggio nel corso di una conferenza di due giorni dal titolo “L’IDF come esercito del popolo”, incentrata sul rapporto esistente tra esercito e società in Israele.

Il sondaggio ha prodotto risultati inequivocabili, mostrando un rifiuto di ampia portata delle posizioni eccessivamente legalistiche e/o moralistiche come fattori determinanti delle decisioni operative dell’IDF.

In tal modo, il sondaggio ha rilevato che oltre il 90 per cento degli intervistati concorda sul fatto che “le vite dei combattenti dell’IDF debbano essere protette anche a costo di aumentare il numero delle vittime palestinesi”.

Allo stesso modo, oltre il 90 per cento degli intervistati si è detto favorevole alla demolizione delle case delle famiglie dei terroristi, previa approvazione della Corte Suprema; oltre l’80 per cento approva l’idea di “bombardare una moschea se si sospetta che essa venga utilizzata per attività ostili contro Israele”; quasi l’80 per cento è a favore della detenzione dei familiari dei terroristi attivi, come mezzo per esercitare pressioni affinché si arrendano; poco meno dell’80 per cento crede che le attività all’estero delle organizzazioni israeliane per i diritti umani, come B’Tselem o Breaking the Silence, minino le capacità operative dell’IDF, e quasi tre quarti ritengono che i terroristi non debbano uscire vivi da qualsiasi teatro di scontro.

Questi risultati dovrebbero preoccupare sia l’establishment giuridico sia quello politico. E questo perché, quando la legalità codificata inizia a perdere la sua legittimità sostanziale, il rispetto della legge viene eroso e lo stato di diritto è a rischio.

L’ordinamento giuridico israeliano tiene conto delle norme sociali?

In effetti, una serie di studi ha rilevato la minore fiducia che l’opinione pubblica nutre per le istituzioni giuridiche israeliane e ha messo in guardia dalle conseguenze di ciò.

Nel suo libro, Towards Juristocracy (Harvard University Press, 2004), il professor Ran Hirschl ha osservato che in Israele, l’impatto negativo della giudiziarizzazione della politica sulla legittimità della Corte Suprema sta già iniziando a mostrare il proprio segno”.

E ha ammonito: “Negli ultimi dieci anni, l’immagine pubblica della Corte Suprema di arbitro autonomo e imparziale è stata sempre più erosa (…) la corte e i suoi giudici sono sempre più considerati da una parte considerevole dell’opinione pubblica israeliana come promotori di una loro agenda politica…”.

Una immagine altrettanto triste, ma più ampia di come l’opinione pubblica consideri il sistema giudiziario del paese emerge da uno studio in corso dell’Università di Haifa, condotto dal professor Arye Rattner, che ha monitorato la fiducia nel sistema giuridico israeliano per oltre un decennio.

Riferendosi ai risultati dello studio dal titolo “La fiducia dell’opinione pubblica nel sistema giudiziario di Israele continua a precipitare”, il quotidiano di sinistra Ha’aretz ha scritto: “L’opinione pubblica perde ulteriormente la fiducia nel (…) sistema giuridico, con solo il 36 per cento dei cittadini ebrei che esprime la propria fiducia nei tribunali…”.

Secondo lo studio, la fiducia dei cittadini nella Corte Suprema era più alta – con il 56 per cento – ma è comunque in forte calo rispetto all’80 per cento del 2000. L’indice di fiducia nel sistema giudiziario generale è sceso dal 61 per cento nel 2000 a poco più di un terzo nel 2013. La fiducia nella polizia era ancora più bassa, attestandosi appena al 20 per cento.

Studi successivi hanno dimostrato che l’indice di fiducia nella Corte Suprema è scesa al di sotto del 50 per cento nel 2017.

Altri studi hanno dimostrato, in modo inquietante, che la fiducia nel sistema giudiziario diminuisce con l’età. Pertanto, più giovani si è, meno fiducia si nutre nel sistema – con il 63 per cento dei cittadini di età compresa tra i 18 e i 29 anni che non si fida del sistema.

Vittime civili: Sensibilità israeliana anomala?

La discrepanza esistente tra la predominante percezione dell’opinione pubblica e  quella del sistema giudiziario si rispecchia nella discordante sensibilità verso le vittime civili del nemico mostrata dalle autorità israeliane e da altre democrazie occidentali – anche quando si tratta di minacce al di fuori di Israele e che indirettamente – o almeno, non drasticamente – mettono in pericolo le loro popolazioni autoctone.

Così, ad esempio, secondo alcune stime, si sono registrati oltre 20 mila morti tra i civili, a seguito delle guerre americane al terrorismo in Iraq e in Afghanistan – senza provocare alcun angosciato esame di coscienza a livello nazionale.

A dire il vero, anche prima dell’invasione dell’Iraq post-11 settembre, la relativa insensibilità degli Stati Uniti verso il destino dei civili degli avversari – anche bambini – è emersa in una intervista del 1996 trasmessa dal programma tv della CBS 60 Minutes e rilasciata da Madelaine Albright, ambasciatrice americana presso le Nazioni Unite nell’amministrazione Clinton, e successivamente segretario di Stato. Nell’intervista, la conduttrice Leslie Stahl, pose alla Albright una domanda sugli effetti delle sanzioni ONU contro l’Iraq.

La Stahl le chiese: “Abbiamo saputo che mezzo milione di bambini sono morti, ossia più di quanti ne morirono a Hiroshima. Secondo lei, ne è valsa la pena?”

E la Albright rispose: “Penso che questa sia stata una scelta molto difficile, ma quanto al prezzo pagato… noi riteniamo che ne sia valsa la pena”.

Occorre ricordare, ovviamente, che in questa fase (antecedente all’11 settembre), né gli Stati Uniti né i cittadini americani sono stati danneggiati dal regime iracheno.

Anomala sensibilità israeliana (cont.)?

Allo stesso modo, nella guerra dei Balcani del 1998-1999, centinaia di civili furono uccisi da una campagna aerea della NATO, nome in codice “operazione Allied Force” – bombardamenti che colpirono quartieri residenziali, case di riposo, ospedali, mercati all’aperto, colonne di profughi in fuga, autobus carichi di civili e treni su ponti, persino un’ambasciata straniera.

È difficile stabilire le cifre esatte, ma il minimo indiscusso è di circa 500 vittime tra i civili (con alcune stime che fanno salire il bilancio fino a 1.500) – tra cui donne, bambini e anziani, uccisi in una novantina di attacchi lanciati da un’alleanza che includeva forze aeree di Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Olanda, Italia, Turchia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti. Fino a 1.500 morti tra i civili sarebbero stati causati dall’uso di bombe a grappolo cadute su aree abitate o adiacenti.

Al contrario, le perdite militari inflitte dalla NATO alle forze serbe durante quasi 80 giorni di bombardamenti aerei furono notevolmente basse, incontrastate da qualsiasi forza aerea avversaria – perdite stimate attorno ai 170 morti.

Tuttavia, le forze NATO non ebbero caduti in battaglia! Ciò fu dovuto principalmente alla decisione di condurre attacchi aerei ad alta quota che riducevano notevolmente il pericolo in volo per il personale militare della NATO, aumentandolo però drasticamente per i civili serbi (e kosovari) a terra.

Ovviamente, va evidenziato ancora una volta che le popolazioni civili dei paesi partecipanti alla “operazione Allied Forces” non furono mai attaccate – o addirittura minacciate – in alcun modo dalle forze serbe.

Tornando a Bennett: Le vittime civili del nemico come restrizioni operative?

Bennett è stato criticato aspramente per le sue osservazioni, con i suoi oppositori che hanno  rilevato che pochissimi soldati dell’IDF sono stati incriminati per misfatti operativi o per errori, seppur gravi – salvo che essere ritenuti responsabili di grave violazione degli ordini. Anzi, essi affermano che non solo il  rigoroso controllo giuridico non ha impedito ai combattenti di adempiere ai loro obblighi operativi, ma li ha di fatto aiutati e protetti a farlo.

Ora, mentre gran parte di ciò può essere oggettivamente vero, per molti aspetti non coglie il nocciolo della questione.

Infatti, non è tanto un problema di intralcio all’esecuzione degli ordini impartiti, quanto di inadeguatezza degli ordini impartiti.

Ad esempio, non era tanto un problema il fatto che i soldati dell’IDF non avessero eseguito gli ordini impartiti per far fronte alle violenze al confine di Gaza degli ultimi 8-9 mesi, ma che gli ordini fossero inadeguati a sedare quella violenza! Chiaramente l’IDF ha la capacità operativa di porre fine alle violenze al confine, ma farlo comporterebbe un numero più elevato di vittime tra i civili dal lato di Gaza.

Per cui, alla fine, come da me rilevato in un precedente articolo, il problema a Gaza non è operativo, ma concettuale.

Pertanto, la domanda da porsi dovrebbe essere: le perdite tra i civili della parte nemica possono o dovrebbero essere considerate una restrizione operativa che preclude il conseguimento degli obiettivi operativi necessari o mette in pericolo le forze o i civili israeliani?

Concettualizzare correttamente il conflitto

Di conseguenza, il problema delle costrizioni legali non è rappresentato tanto dai vincoli posti alle azioni dei soldati dell’IDF, quanto invece dai vincoli posti ai processi mentali dello stato maggiore dell’IDF e di coloro preposti alla formulazione della politica strategica della nazione.

Se i nostri alti dirigenti militari e politici non concettualizzano correttamente il conflitto, non avranno alcuna possibilità di affrontare adeguatamente le sfide a lungo termine che esso pone alla sopravvivenza di Israele come stato-nazione del popolo ebraico.

La verità nuda e cruda è che, se concettualizzato correttamente, il conflitto tra gli ebrei e gli arabi-palestinesi sul controllo della Terra Santa è l’archetipo di un gioco a somma zero. È uno scontro tra due comunità rivali, con narrazioni fondanti irriconciliabili. È uno scontro in cui solo una parte può emergere vittoriosa e l’altra ne esce sconfitta. Non ci sono premi di consolazione!

A questo proposito, vi è una logica inoppugnabile – anche se contro-intuitiva – per affermare che una eccessiva preoccupazione per le perdite tra i civili del nemico può ben causare vittime da entrambe le parti.

Infatti, se gli avversari credono che evitare di fare vittime tra i civili del nemico sia un vincolo significativo, beh, essi avranno poche motivazioni per evacuarli o per consentire loro di essere evacuati per non subire danni. Al contrario, la logica operativa imporrà di tenerli in pericolo! Inoltre, la preoccupazione per le vittime civili obbligherà ad adottare decisioni operative che potrebbero esporre le proprie forze militari a perdite maggiori o comunque evitabili.

In conclusione

Di conseguenza, questo è uno scontro in cui la collettività ebraica non può mettere in pericolo i propri diritti collettivi per il diritto individuale di quelli della collettività nemica. Se lo facesse, perderebbe tanto i propri diritti collettivi quanto quelli individuali dei suoi elettori.

Anzi, vorrei invitare chiunque tenda a sfidare questa dura valutazione a considerare le conseguenze di una sconfitta ebraica e di una vittoria araba. Di certo, anche un sommario esame delle crude realtà regionali dovrebbe essere sufficiente per comprendere la portata di ciò che comporterebbe un risultato di questo genere.

Pertanto, solo una volta che sarà raggiunta una decisiva vittoria ebraica, il problema dell’ingiustizia individuale e delle sofferenza inflitta alla collettività araba potrà essere  affrontato come una considerazione politica.

È chiaro dunque che la vittoria ebraica sull’antagonista collettività araba deve essere la principale preoccupazione morale e operativa di Israele. Facilitarne il conseguimento dovrebbe essere anche la sfida primaria per l’establishment giuridico Israele.

Traduzione dall’inglese di Angelita La Spada

https://www.israpundit.org/into-the-fray-defending-israel-civilian-casualties-and-common-sense/

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