Editoriali

Dimenticare Kabul (e in fretta)

L’irrilevanza politica dell’Europa a proposito della crisi in Afghanistan si è vista plasticamente al G7 che si è svolto ieri. L’amministrazione Biden ha ribadito che manterrà la data del 31 agosto imposta dai talebani per l’evacuazione dei cittadini americani che si trovano nel paese e per gli afgani in possesso di visto, malgrado sia praticamente impossibile che, pur a ritmo serrato, si riesca a evacuarli tutti entro la deadline. Nessuna concessione ai tentativi europei guidati dall’alleato storico britannico di procastinare la data. Sono i talebani che dettano i tempi e la presenza lampo a Kabul di William Burns, direttore della CIA, è stata in funzione di una possibile transazione sottobanco per vedere se sarà possibile un ammorbidimento.

A pochi giorni dall’11 settembre, la più grande potenza militare del pianeta, quella che aveva dato il via nel 2001 in Afghanistan con George W. Bush, all’operazione contro il terrore raggiungendo velocemente l’obbiettivo di sgominare i talebani e successivamente di eliminare il mastermind dell’attacco alle Torri Gemelle, si presenta col cappelo in mano al “gruppo di straccioni” (così appellato da Joe Biden )venuto dalle montagne per trovare una via d’uscita che non trasformi in ostaggi quegli americani che entro il 31 agosto non saranno potuti uscire dal paese.

In merito agli afgani che in questi vent’anni hanno potuto godere dei vantaggi delle riforme dovute al governo filo-occidentale voluto dagli Stati Uniti e dai suoi alleati, li si saluta caramente augurandogli buona fortuna sotto il futuro Emirato islamico. E’ la politica, bellezza, Joe Biden e il suoi collaboratori hanno altre priorità, convinti come sono che nonostante il disdoro internazionale che gli Stati Uniti si sono gettati addosso per il modo in cui hanno deciso di ritirarsi, all’opionione pubblica americana interessi altro, e infatti, al G7, Joe Biden ha esordito parlando di politica interna, celebrando l’accordo tra i democratici per il passaggio del budget da 3,5 miliardi di dollari del suo faraonico piano di incentivazione economica. Intervento di una manciata di minuti e nessuna domanda accolta dalla stampa.

Si scommette, perchè questa è la scommessa giocata esclusivamente sul tavolo politico, che la crisi afgana che da giorni è sotto i riflettori di tutto il mondo, sarà presto archiviata nonostante l’esorbitante prezzo che viene pagato sotto il profilo della credibilità e dell’affidabilità. Cade, come un fragile castello di carte, la persuasione giubilante che dopo l’uscita di scena di Trump, con Biden la Casa Bianca sarebbe tornata a rimettere in sesto il multilateralismo che aveva caratterizzato l’amministrazione Obama, mostrandosi attenta ascoltatrice delle ragioni degli alleati, soppesandone i pro e i contro.

La decisione di Biden di uscire dall’Afganistan entro la data simbolica dell’11 settembre non è che il seguito di un’unica strategia di progressivo disimpegno militare sui teatri internazionali portata avanti dall’amministrazione Obama e poi da quella Trump. Una linea ininterrotta che con gradazioni e ragioni diverse (motivata con Obama dalla convinzione che gli Stati Uniti dovessero rinunciare al loro ruolo ingombrante e rischioso di essere i vigilanti dell’ordo occidentale per trasformarsi in un soft power fondato sulla persuasione diplomatica, e con Trump da quella di farsi portavoce della pancia del paese, da sempre ostile alle “guerre degli altri”) mette al primo posto gli interessi interni, il benessere domestico.

La guerra al terrore voluta da Bush Jr. come risposta all’11 settembre è percepita come una pagina ingiallita della storia, nonostante il jihadismo sia vivo e vegeto, una realtà agguerrita in seno all’Islam militante di cui i talebani sono una delle diversificate e oggi vincenti manifestazioni.
Dimenticare Kabul è ora la priorità, anche se, ciò che in Afghanistan prese corpo vent’anni fa, continuerà imperterrito a custodire il proprio odio per l’Occidente, Stati Uniti in testa.

 

 

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