Editoriali

Gli Accordi di Abramo e i morsi della realtà

Molta enfasi circonda i cosiddetti Accordi di Abramo, l’intesa tra Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Israele, che sotto l’egida di Donald Trump sono stati siglati ieri a Washington. Gli accordi prendono il nome del capostipite delle due religioni monoteiste, (anche se, per i musulmani, Abramo era e rimane in dotazione particolare all’Islam come tutti i profeti, Gesù compreso), a sottolineare il comune legame, la ritrovata intesa. Tutto sembra luminoso e forriero di splendidi progressi, ma le cose stanno veramente in questo modo?

A leggere ciò che i rappresentanti  di Israele, degli Emirati e del Bahrein hanno firmato insieme al presidente degli Stati Uniti, si scorre un documento pieno di buone intenzioni, in cui, nel preambolo si dichiara “l’importanza di mantenere e rafforzare la pace in Medio Oriente e nel resto del mondo”, di promuovere il “dialogo interconfessionale e interculturale”, di cercare “la tolleranza e il rispetto per ogni persona in modo da rendere il mondo un luogo ove tutti possano condividere una vita di dignità e speranza, non importa quale sia la loro fede, razza o etnicità”, ecc. Quando poi si arriva alla sostanza e allo specifico del conflitto israelo-palestinese, si dichiara che si vuole giungere all’ obbiettivo di “una giusta e comprensiva e duratura soluzione”. Questa affermazione, di una genericità assoluta, è contornata da una serie di passi più concreti come lo stabilirsi di relazioni diplomatiche ed economiche, il vero succo del discorso.

Per molti commentatori, gli Accordi di Abramo sarebbero una svolta epocale e una intesa paragonabile, per importanza, agli accordi siglati con l’Egitto e la Giordania, paesi che cercarono di distruggere Israele e con i quali, lo Stato ebraico, giunse a degli accordi di pace che, nel caso dell’Egitto non sono altro che una tregua a seguito di ampie concessioni, mentre in quello della Giordania di una serie di concessioni che non hanno mai impedito, per un solo istante, al regno hashemita di manifestare la propria irriducibile ostilità.

Come ha commentato qui su L’Informale Martin Shermn, uno dei pochissimi analisti scettici sulla portata degli Accordi di Abramo, “Penso che l’accordo con gli Emirati Arabi Uniti sia un passo positivo, ma non sono tra coloro che si uniscono all’euforia generale. Fondamentalmente ciò che Israele sta facendo è di formalizzare relazioni esistenti, quindi, in altre parole, sta formalizzando qualcosa che è già in corso”.

La realtà è che la positività del disgelo formalizzato tra Emirati, Bahrein e Israele, segue in primo luogo la logica della necessità contingente di costituire un asse comune sotto protezione americana nei confronti dell’Iran e, in secondo luogo, quello di conferire a Donald Trump, che più di ogni altro presidente americano ha agito a beneficio di Israele, un meritato trofeo da spendere elettoralmente.

Al di là di questo, il nodo, il conflitto, lo stallo negoziale tra Israele e l’Autorità Palestinese, la bellicosità di Hamas, (per restare strettamente nei dintorni) non subiscono alcun rilevante mutamento. Indubbiamente Abu Mazen resta con un pugno di mosche in mano, ma siamo lontani da un mutamento di prospettiva, e non si vede in che modo questi accordi in cui, al di là di, si spera, di fattive relazioni diplomatiche e commerciali, si promuovono sostanzialmente buoni intenti, sia in grado, al momento, di determinare un cambiamento politicamente concretamente rilevante.

Gaza resta solidamente nelle mani di Hamas che, appena terminati i soldi inviati dal Qatar con il permesso di Israele, inizia a lanciare razzi sul sud del paese, Abu Mazen guida ancora l’Autorità Palestinese, e una sua eventuale sostituzione lascia aperta una grande incognita, l’Iran, malgrado le sue oggettive difficoltà interne, sostiene a spada tratta la “causa palestinese” insieme alla Turchia, nei territori considerati occupati dalla comunità internazionale, Israele ha dovuto rinunciare, non si sa fino a quando, ad estendere legittimamente la propria sovranità.

Tutto questo è rimosso giulivamente dalla scena come se bastasse pronunciare la parola “pace” per farlo scomparire. Beninteso, gli Accordi di Abramo sono una buon cosa, ma pensare che siano risolutivi, come sono stati risolutivi gli accordi con l’Egitto, con la Giordania e massimamente quelli di Oslo, rischia di dovere amaramente fare i conti con i morsi di una realtà assai refrattaria.

 

 

 

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