Editoriali

Gli incendiari

Con una decisione senza precedenti nella storia degli Stati Uniti, ieri la Camera ha votato per sottoporre a impeachment una seconda volta, il presidente uscente Donald Trump.

Il voto è stato rimandato al Senato, dove sono indispensabili i due terzi dei senatori affinchè la procedura di messa sotto accusa del presidente passi. Sono stati necessari dieci senatori repubblicani perchè passasse alla Camera. Capeggiati da Liz Cheney, hanno votato contro Trump. Al Senato ne serviranno sette in più.

In un discorso tenuto il 7 novembre, l’allora presidente eletto Joe Biden, ora presidente proclamato, che avrà pieni poteri il 20 gennaio prossimo, disse che era arrivato il tempo della riconciliazione. “It’s time to heal”. L’irruzione di un manipolo di esagitati, il 6 dicembre in Campidoglio a Washington durante la sessione in corso atta a confermare l’assegnazione dei collegi a Joe Biden, era ancora da venire.

La responsabilità dell’episodio increscioso è stata addossata interamente a Donald Trump, nonostante, durante il comizio tenuto lo stesso giorno, il presidente in carica avesse esortato tutti i manifestanti a comportarsi in modo pacifico.

Si può imputare a Trump una retorica incendiaria fondata come è stata, successivamente all’esito del voto, sulla delegittimazione di questo esito e sulle accuse reiterate della sua fraudolenza, ma certamente non di avere incoraggiato o legittimato quanto è accaduto.

A pochi giorni dal fatto, presentato iperbolicamente dalla stampa come una sorta di tentato golpe, nei confronti del presidente uscente si sta consumano una vendetta che non è altro se non il finale della accanita e forsennata delegittimazione cominciata il giorno stesso della sua vittoria nel 2016.

Nancy Pelosi, presidente della Camera dei Rappresentanti, la quale ancora nel 2017 scriveva su Twitter, “Le nostre elezioni sono state dirottate. Non ci sono dubbi”, oggi, è in prima linea nell’attaccare Trump, accusandolo grottescamente di “incitamento all’insurrezione” e chiedendo la sua testa.

L’esortazione novembrina di Joe Biden, che si è voluto presentare come il pacificatore, non ha avuto alcuna presa sul partito che lo ha espresso candidato, e nelle ultime ore, da parte sua, non risulta nessun tentativo di calmare gli animi. Nel partito ha preso il sopravvento l’ala radicale, di cui la Pelosi è una delle punte di lancia.

Se in questa circostanza la voce di Joe Biden non si sente, ci sono solo due inevitabili conclusioni da trarre, o anche lui è d’accordo sul mettere sotto impeachment Donald Trump per una accusa che sarà molto difficile dimostrare, e giusto un giorno prima della fine del suo mandato presidenziale, oppure il radicalismo del suo partito è in grado di smorzarne la voce.

L’accanimento in corso trova la sua ragione d’essere unicamente nel tentativo di distruggere Trump politicamente, di consegnarlo alla damnatio memoriae. Come ha evidenziato Jason Miller, capo stratega della sua  campagna elettorale, “Desiderano cancellare completamente la presidenza Trump e con essa i suoi 75 milioni di sostenitori”.

Tutto questo avviene in un momento in cui la divisione nel paese è enorme, ed è causata dall’oltranzismo di chi, del nemico, vuole il completo annichilimento.

Chiedere la pacificazione e invitare alla cessazione della violenza e poi gettare benzina sul fuoco incardinando il voto al Senato per un impeachment che non ha altro scopo, vista la sua assai dubbia costituzionalità, se non quello di marchiare di infamia il presidente uscente, non sanerà alcuna ferita, contribuirà solo ad esacerbare gli animi.

Le conseguenze, non c’è bisogno di essere Cassandra per prevederlo, non tarderanno a manifestarsi.

 

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