Editoriali

I nodi e il pettine

I tempi difficili che Israele sta attraversando, sul fronte interno, dopo le dodici ininterrotte settimane di proteste contro la riforma della giustizia che il governo Netanyahu ha messo in agenda, e ora, dopo gli attacchi che provengono da sud e nord, seguiti dall’ultima ondata di violenza terroristica in Cisgiordania e sul lungomare di Tel Aviv, dove un turista italiano è stato ucciso, mettono in luce urgenze improcastinabili.

La prima, come sempre riguarda la sicurezza di Israele minacciata dai nemici abituali, Hamas in testa, il quale, con il consenso di Hezbollah, lancia 34 missili dal Libano.

Negli ultimi otto anni, dopo l’operazione Margine Protettivo del 2014, il conflitto di maggiore portata con il gruppo terroristico salafita costola della Fratellanza Musulmana, che dal 2007 governa Gaza, si è scelto di optare per una politica di pragmatismo fondata sul principio del bastone e della carota.

A Gaza vengono consentiti i rifornimenti essenziali per la sopravvivenza della popolazione e a Hamas, tramite l’intercessione del Qatar, i soldi per mantenersi in sella e continuare a rappresentare la punta di diamante della lotta contro “l’occupante”.

Si tratta, evidentemente, di una situazione che non consente alcuna soluzione del problema, possibile solo e unicamente se Hamas venisse definitivamente eliminato dall’enclave costiera, con la messa in carico di costi umani elevati anche da parte israeliana, e la necessità, successivamente, di riprenderne di nuovo il controllo dopo averla lasciata nel 2005.

Ciò, tuttavia, significa che a Hamas, come ha dimostrato in questi ultimi anni, viene consentita la possibilità di migliorare le proprie capacità militare, causando maggiori danni a Israele soprattutto agli abitanti che vivono a sud. Quella di Israele sarà sempre superiore e il calcolo che Netanyahu ha fatto fino ad oggi è che nonostante i problemi che Hamas causa, i benefici sono assai maggiori dei costi che Israele pagherebbe se decidesse di toglierlo di mezzo definitivamente.

Preoccupazione assai più rilevante di Hamas la desta l’Iran. Dal 2016, con il consenso della Russia, Israele ha effettuato decine di raid aerei in Siria per depotenziarvi l’incistamento di Hezbollah, ma ciò non ha impedito all’Iran di proseguire nel suo programma nucleare. Alcuni omicidi mirati che Israele ha organizzato in Iran colpendo personaggi legati alla realizzazione del programma, ne hanno, al massimo, rallentato lo sviluppo ma non l’esecuzione. Questa è la spada di Damocle maggiore che pende sullo Stato ebraico.

Come nel caso di Hamas anche in quello dell’Iran, Israele ha potuto soltanto arginare la minaccia, cercando di conviverci, ma mentre nel caso di Hamas, il gruppo terrorista non rappresenta una minaccia esistenziale, in quello dell’Iran, la situazione è esattamente questa e una volta che il regime di Teheran sarà a un passo dalla dotazione nucleare, Israele sarà costretto a intervenire.

La seconda urgenza, riguarda la riforma della giustizia, riforma necessaria e in gran ritardo, che ha trovato una strenua opposizione da parte del potere giudiziario, il quale rappresenta l’acme dell’ecosistema di sinistra, come lo ha definito Caroline Glick, che nei decenni si è consolidato fortemente all’interno della società israeliana.

Per settimane, ininterrottamente i mass media nella loro pressoché totale maggioranza hanno dipinto la riforma come un attentato alla democrazia, una sorta di colpo di mano inteso a coartare i giudici stabilendo di fatto una dittatura della maggioranza. Migliaia di persone sono scese in piazza senza avere sentore di quale sia il potere che la magistratura ha progressivamente consolidato in Israele, un vulnus che dura da trent’anni.

La riforma proposta dal Likud, perché i due proponitori, Levin e Rothman sono entrambi appartenenti al partito guidato da Benjamin Netanyahu, non è sicuramente un testo né perfetto né immodificabile, non avendo lo statuto della sacralità, ma è un disegno di legge che va nella direzione giusta, quella di depotenziare il potere esorbitante della Corte Suprema sull’esecutivo e il legislativo senza eguali in nessuna democrazia occidentale ridando a quest’ultimi le loro prerogative sovrane.

L’ideale sarebbe che una riforma di questo tipo venisse concertata anche con l’opposizione, ma data la spaccatura profonda che si è creata nel paese è un esito che appare assai improbabile.

Inevitabilmente, i giorni che verranno, quelli più vicini e quelli più lontani, faranno venire tutti questi nodi al pettine.

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