Storia e antisemitismo

Il Campo di Concentramento di Servigliano e la Casa della Memoria

In una piovosa mattina del mese di febbraio ho messo in atto il proposito, da tempo meditato, di visitare e raccontare un luogo di dolore e di memoria che nelle province di Ascoli e Fermo riveste un  profondo significato. Luogo che, ingiustamente, al di fuori del territorio Piceno (in cui insiste la costola di Italia-Israele che rappresentiamo) resta ad oggi poco noto.  Parliamo del Campo di Concentramento di Servigliano, una struttura che nella fase più acuta delle ritorsioni naziste fu prevalentemente impiegata come appoggio logistico finalizzato alla deportazione.

Ho raggiunto di buon ora l’omonimo comune dell’entroterra parcheggiando l’auto proprio davanti al muraglione lugubre del Campo, oggi gestito e preservato dall’associazione Casa della Memoria, anticipando  intenzionalmente di mezz’ora l’orario dell’appuntamento che ho fissato telefonicamente con il direttore scientifico, il prof. Paolo Giunta La Spada.

L’intento del mio anticipo è quello di cogliere qualche suggestione non contaminata dalla narrazione storica e dalla filologia della conservazione e provare così a cogliere qualche eco delle sofferenze di cui il Campo è stato testimone.

In una giornata come questa, per un luogo con questo aspetto, a nulla vale aver assunto il nome di “Parco della Pace”: la tristezza ha pervaso il mio spirito senza neppure aver varcato i cancelli.

Ho percorso così, ancora solo, un tratto del muro principale del “parco”, intravedendo l’ampio prato avvolto nella nebbia e provando a immaginare la sofferenza di chi ne ha vissuto l’avvilente desolazione da prigioniero.

Mezz’ora più tardi mi ha provvidenzialmente raggiunto il prof. Giunta La Spada, sollevandomi dallo stato di prostrazione e aprendo i locali del museo Casa della Memoria che è ubicato nello stabile dell’ ex stazione prospiciente il Campo di prigionia. Una stazione, per dare qualche coordinata geografica, che si trova a metà di una linea ferroviaria, oggi dismessa, che collegava il paese marittimo di Porto San Giorgio al comune pedemontano di Amandola.

Il tempo però di accendere le luci, aprire le imposte in legno originali, e si è subito colpiti dalle immagini di volti sbiaditi degli internati, che scrutano il visitatore attraverso le riproduzioni di foto d’epoca.

Giunta La Spada mi mette a mio agio invitandomi a dargli del tu «Siamo colleghi» mi ricorda «anche se sono in pensione da qualche anno». Poi mi mostra sul plastico in scala la struttura del Campo che nella sua ultima fase di esistenza, quella più tragica, lo ha visto anticamera di deportazioni verso la morte certa di Aschwitz – Birkenau.

Quello di Servigliano, apprendo dalla viva narrazione del Direttore, nasce nel 1915, durante il Primo Conflitto Mondiale, come campo creato per la detenzione di prigionieri di guerra austriaci.  I detenuti erano ivi collocati in 32 baracche di legno e muratura all’interno dell’area circondata da mura perimetrali. Il numero dei prigionieri variò nel corso del conflitto fino a raggiungere il numero di quasi 4000 unità, impiegati sul territorio come manovalanza nelle attività agricole e artigianali.

Una rinnovata e tragica funzione, spiega, la struttura la ebbe a partire dal periodo precedente il Secondo Conflitto; funzione che divenne poi fatale quando a seguito della resa di Badoglio le truppe naziste se ne servirono per la logistica dei rastrellamenti e delle deportazioni  finalizzati allo sterminio.

Il 14 settembre del 1943 i prigionieri stranieri e antifascisti ivi detenuti fuggirono dalla struttura che era sotto il controllo diretto delle truppe naziste. Numerosi furono quelli che beneficiarono dell’aiuto di  famiglie locali e anche di lavoratori che, nell’esercizio delle proprie funzioni, si impegnarono a salvare vite come poterono.

Ascolto con trasporto le parole del Direttore, rapito dalla sua intensa narrazione « molti impiegati comunali fornirono carte di identità false a ebrei e antifascisti; i ferrovieri deviavano e rallentavano i treni usati dalle truppe naziste, i medici attestarono malattie inesistenti…».

Pertanto, nella vicenda italiana che vede circa 30.000 ebrei salvati in Italia attraverso le azioni di resistenza civile si annoverano anche quelle avvenute nel territorio prossimo a  Servigliano.

Non meno numerose, tuttavia, furono le storie con esiti tragici: i prigionieri che non riuscirono a sottrarsi alla furia nazista subirono il trasferimento da Servigliano a Fossoli, o a San Sabba e Gries, indi condotti allo sterminio metodico di strutture tristemente famose.

Tra questi la tragica vicenda di Grete Shattner, dottoressa ebreo-ucraina compagna del giovane avvocato Uberto Vanini, e di sua figlia Giuliana, oggi ottantenne, che al direttore ha affidato  la memoria di sua madre che subì tale atroce sorte quando era ancora bambina. Sta a dire la vicenda narrata nel saggio storico-biografico attraverso il quale ho conosciuto il medesimo prof. Giunta La Spada.

Dopo la narrazione rigorosa, eppure toccante, di questa e altre vicende umane che hanno avuto per teatro il Campo, ci appressiamo alla visita che ha inizio attraversando un ampio prato che oggi è bagnato e brumoso.

Mi colpisce subito la tetraggine dell’ambiente occupato in parte da giochi e campetti sportivi. Mi vengono mostrate le tracce della breccia che praticarono i prigionieri quel 14 settembre, quindi elencati i nomi di quei protagonisti, molti dei quali stranieri, rimasti in contatto, dopo la fine del conflitto, con il territorio. Molti oggi sono scomparsi ma ve ne sono anche alcuni viventi.

Durante la passeggiata con gli ombrelli aperti apprendo con sconcerto che una parte rilevante di quello che fu il volto del Campo di Servigliano è stato abbattuto negli anni ‘70 del secolo scorso e soltanto due sono le strutture originali che davano ricovero ai prigionieri.

Giunta La Spada  narra di gestioni politiche e amministrazioni locali susseguitesi nei decenni postbellici le quali avrebbero volentieri eradicato ogni traccia del tragico monumento. Il caso, mai termine fu più appropriato, ha voluto che il volto – sia pure parziale – della struttura sopravvivesse fino ai giorni nostri,  grazie anche all’impropria occupazione di attività ludico associative…che pure hanno avuto il merito, inconsapevole ma provvidenziale, di garantire la sopravvivenza delle baracche.

Guardo con sgomento la loro spartana fattura,  parallelepipedi intonacati di bianco caratterizzati da inserti a croce in legno, e chiedo incerto «Ma queste sono proprio le baracche dell’epoca?»

«Certo, sono proprio quelle… quelle sopravvissute. Il loro stato conservativo però, come puoi constatare, non è ottimale abbisognerebbero di un importante opera di restauro».

Mi spiega perciò tutto ciò che lui, personalmente e attraverso lo strumento associativo, sta mettendo in atto per sensibilizzare le istituzioni. Nonostante io conosca le notevoli attività promosse da Casa della Memoria, grazie ad una relativa notorietà territoriale, mi sorprende ugualmente ascoltare dalla viva voce del Direttore i numerosi filoni in cui l’Associazione è impegnata, a partire dalla gestione della bella struttura museale, cui fanno frequente visita le scolaresche. Quindi lo sforzo costante di implementare una collezione già ricca di materiale documentale e fotografico d’epoca che hanno raccolto con impegno personale i soci, recuperando materiale in forte stato di degrado nei trascurati archivi comunali  presenti sul territorio. Non meno importante quindi l’attività commemorativa che vede, per la verità, fin dai primi anni post bellici, la partecipazione degli ex internati, ebrei e antifascisti in genere, che sono tornati spesso in occasione delle date notevoli legate alle vicende della Memoria.

Mi faccio garante, come referente della Federazione, di trasmettere per quanto possibile questa vicenda e l’esistenza stessa di questo monumento della memoria, con l’idea di inaugurare anche una collaborazione  nel perseguire l’ obiettivo della trasmissione di una tragica verità storica che ha visto per protagonista, anche, la Marca Picena.

 

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