Interviste

Il nuovo scenario mediorientale : Un’intervista con Daniel Pipes

Daniel Pipes ha recentemente visitato l’Italia. Allo storico americano e commentatore politico, uno dei maggiori esperti internazionali di Medioriente, L’Informale ha rivolto alcune domande sul mutato scenario attuale.

Recentemente Donald Trump ha decertificato l’accordo sul nucleare iraniano lasciando al Congresso Americano la decisione di sanzionare o meno Teheran. E’ d’accordo con John Bolton, Martin Sherman e altri, che sia inutile “aggiustare” il deal e invece che sia necessario “affossarlo”?

Sì, sono risolutamente d’accordo con loro. Trump ha solo fatto un mezzo passo nel smantellare l’accordo quando ci vorrebbe un passo completo. La sua azione non cambia fondamentalmente la politica americana ma scarica il peso sul senato. Ciò rappresenta un compromesso tra l’intenzione originaria di Trump e il punto di vista di coloro i quali, in questa amministrazione, si oppongono a questo cambiamento fondamentale.

Gli Stati Uniti affermano che l’Iran è il principale stato terroristico ma fanno poco o niente in Siria per limitare il consolidamento iraniano. Come spiega questa contraddizione?

Il Medioriente è un luogo complicato in cui la coerenza può essere un obbiettivo impossibile da raggiungere. Quelli che sono antagonisti in un teatro sono spesso alleati in un altro. Detto questo, vorrei che Washington fosse più sostanzialmente ostile nei confronti della Repubblica Islamica dell’Iran al punto da operare per un cambiamento di regime, ma non è mai stato il caso in quasi quarant’anni di governo khomeinista.

L’abbandono americano di Kirkuk nell’appoggiare il governo di Baghdad sostenuto dalle milizie sciite contro i curdi è un altro esempio di sostegno all’Iran oppure no?

Questo è ingiusto. Washington non ha abbandonato i curdi. Sono stati i curdi che hanno preso una decisione avventata nel tenere un referendum alla fine di settembre e ora stanno pagando il prezzo per la loro decisione. Non si può incolpare l’amministrazione Trump per un referendum che ha osteggiato chiaramente e coerentemente. Non si può definire “abbandono” il fatto che gli americani non siano intervenuti a salvare i curdi dal loro errore.

L’aggressività dell’Iran in Medioriente sembra inarrestabile a fronte della passività Americana e della cooperazione russa. Ciò significa una prossima guerra per Israele?

Sì, uno scontro sembra probabile, probabilmente in Libano e in Siria. Mentre il potere iraniano si sta espandendo, Hezbollah sta trasferendo le sue milizie in Siria posizionandole contro Israele. La probabilità di una guerra tra Israele e Hezbollah aumenta con il trascorrere del tempo.

Parlando al Congresso Americano nel 2015, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu disse, “Il regime iraniano non costituisce una grande minaccia solo per Israele ma per il mondo intero”. In una intervista che ho avuto con il politologo tedesco Matthias Küntzel, egli ha sottolineato la natura chiliastica della politica estera dell’Iran, sottolineando come Ali Khamenei abbia descritto la rivoluzione iraniana del 1979 “il punto di svolta della storia moderna” affermando che lo scopo del movimento è quello di creare “una nuova civiltà”. Quanto dobbiamo valutare seriamente questa prospettiva e in che modo dovremmo rispondere?

La leadership iraniana si vede senza dubbio come l’avanguardia di una rivoluzione, come, in precedenza si sono viste in modo tale le leadership comuniste, fasciste e naziste. E’ un fatto indiscutibile. Ma tutti questi regimi, nel corso del tempo hanno perso il sostegno delle loro popolazioni sottomesse, ciò che sta accadendo in Iran. Circa quarant’anni dopo la rivoluzione islamica, c’è solo una piccola minoranza di iraniani che la sostiene.

Tutto ciò impone alla dirigenza di confrontarsi con un problema. Vuole agire aggressivamente ma comprende la propria fragilità. In qualsiasi giorno del futuro ci sarà una panetteria senza pane o un distributore senza benzina. Il risultato potrebbe essere un tumulto che si diffonderà attraverso il paese e che finirà per rovesciare il governo. E’ quello che prevedo, ma ovviamente, non posso sapere quando accadrà. Noi che ci troviamo all’esterno dovremmo intraprendere i passi necessari affinché questo giorno si avvicini.

Il regime iraniano non è più forte che mai ora, dopo la fine delle sanzioni, miliardi di dollari in entrata e contratti lucrosi con l’Unione Europea in corso d’opera? Ne ha a sufficienza per migliorare il benessere della popolazione e diventare ancora più aggressivo internazionalmente.

Il suo calcolo sopravvaluta la competenza economica di Teheran e sottovaluta le aspettative della popolazione iraniana. Da quello che ascoltiamo, c’è una massiccia delusione nei confronti dell’accordo sul nucleare, il che lascia il regime ancora più vulnerabile.

Come valuta le dimissioni del primo ministro libanese, Saad Hariri e le sue accuse di una interferenza iraniana?

Tutto ciò fa parte del vasto dramma che coinvolge il principe reale Mohammad bin Salaman in Arabia Saudita. E’ difficile stabilire così presto cosa significhino le dimissioni irrituali e a sorpresa di Hariri. Personalmente ritengo che Mohammad bin Salaman lo trovasse debole e abbia voluto rimpiazzarlo come leader dei sunniti libanesi.

Quale è la sua valutazione della politica mediorientale dell’amministrazione Trump fino ad oggi?

In campagna elettorale Trump ha dichiarato la sua intenzione di produrre vasti cambiamenti nella politica estera americana in generale e in modo particolare in Medioriente. Nove mesi dopo, tuttavia, sembra che la politica sia tornata più o meno come prima. Le truppe stanno tornando in Afghanistan, l’ambasciata americana resta a Tel Aviv, il “processo di pace” israelo-palestinese è stato rilanciato, l’accordo nucleare con l’Iran prosegue, Erdogan viene elogiato, i fondi vengono negati al governo egiziano come punizione, e l’islamismo non è più indicato in modo esplicito.

Come mai questo ritorno alla convenzionalità? Perché a Donald Trump mancano sia le fondamenta filosofiche sia la conoscenza specifica per portare in essere la sua visione radicale. Ha finito con l’appoggiarsi alle stesse persone che aveva criticato perché si tratta di esperti.

In Siria vediamo all’opera una alleanza dei malevoli: Assad, Putin, Rouhani, Erdoğan. Il mondo occidentale, e in modo particolare Israele si sta confrontando con un nuovo asse del male?

Come sottolinea lei, le forze in Medioriente sono oggi molto più maligne di quando George W. Bush conio la definizione “asse del male” nel 2002. Dal punto di vista israeliano la situazione è più pericolosa con degli Stati Uniti più deboli una Russia e un Iran più forti, più una Turchia ostile. Ma Israele guadagna anche da queste circostanze, perché degli Stati Uniti più deboli e un Iran più forte significano che altri vicini, in particolare i sauditi e gli egiziani, sono disponibili a cooperare come non è mai avvenuto prima.

Il suo recente articolo apparso sul Washington Times, “Salvare la NATO dalla Turchia” argomenta che oggi il principale obbiettivo della NATO sia quello di contenere e sconfiggere la Russia e l’Islamismo. Ciò mi riconduce a un articolo seminale di Bernard Lewis del 1954 in cui sottolineava un parallelo tra comunismo e Islam. Cosa ne pensa di questa analogia?

E’ una buona domanda, ma direi che si tratti più di una coincidenza che di un parallelo. Putin non è un comunista ma un nazionalista russo. Non ha una ideologia da imporre in giro per il mondo, piuttosto sta espandendo il potere russo in un momento in cui la popolazione russa e le risorse energetiche stanno diminuendo. Dunque si tratta di una linea di azione difensiva, non paragonabile con l’aggressione comunista di sessanta anni fa. In più, l’islamismo era una forza debole nel 1954 mentre oggi è una forza molto potente.

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