Israele e Medio Oriente

Il Patto tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti: Sacrificare la sostanza per l’etichetta?

(21 agosto 2020 / JNS) “La questione principale non è [raggiungere] un accordo, ma garantire l’effettiva attuazione dell’accordo nella pratica. Il numero di accordi che gli arabi hanno violato non è inferiore al numero  di quelli che hanno mantenuto “. –

Shimon Peres,  Tomorrow Is Now, Keter: Jerusalem, p. 255

“Povero Menachem … Dopotutto, ho ripreso … i giacimenti petroliferi del Sinai e di Alma, e cosa ha ottenuto Menachem? Un pezzo di carta.” –

L’ex presidente egiziano Anwar Sadat sul New York Times, 19 ottobre 1980

“Il Qatar ha stabilito relazioni commerciali con Israele nel 1996, il primo Stato confinante con il Golfo Persico a farlo. Nel 2000, l’ufficio commerciale di Israele in Qatar è stato chiuso dalle autorità. Il Qatar ha interrotto definitivamente le relazioni commerciali con Israele nel 2009 in seguito all ‘”Operazione Piombo fuso”. “-

Professor Uzi Rabi, The Middle East Journal, vol. 63, n. 3, estate 2009

Dal 13 agosto, quando è stato reso pubblico, si sono riversati fiumi d’inchiostro nell’analizzare i pro e i contro dell’accordo di pace tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti (o meglio, di “normalizzazione”), soppesando i potenziali benefici contro i potenziali rischi.

Sono state formulate speculazioni sul modo in cui questo accordo ha ribaltato precedenti che hanno dettato approcci al perennemente vacillante “processo di pace”, così come sono state fatte delle congetture sul fatto che altri Stati arabi “moderati” (vedi “sceiccati sunniti dispotici e nepotisti) seguiranno l’esempio e stringeranno un accordo simile con lo Stato ebraico.

Sebbene tutti questi aspetti siano certamente pertinenti e degni di attenzione, per molti versi tralasciano il punto fondamentale. In effetti, l’accordo è solo un puntello nella coreografia di un allestimento scenico molto più grande. Dopotutto, formalizzare la relazione in atto tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti (EAU), che nonostante vengano considerati molto ricchi e opulenti, hanno un PIL pro capite inferiore rispetto a quello di Israele e sono un Paese di circa un milione di abitanti (quasi il 90 per cento della popolazione degli EAU è costituita da migranti/espatriati), difficilmente sarà una misura di enorme importanza strategica.

Al di là delle considerazioni sulla validità permanente, sul potenziale e sulla possibile estensione dell’accordo, la questione che potrebbe avere l’impatto strategico più profondo e duraturo per Israele è se l’accordo tra quest’ultimo e gli Emirati Arabi Uniti fornirà all’amministrazione Trump il credito sufficiente per condurla alla vittoria alle elezioni presidenziali del prossimo novembre.

Chiaramente, Israele si troverà in due differenti – anzi, divergenti – universi strategici, a seconda di chi vincerà il ballottaggio cruciale. Una cosa sarà se il GOP pro-Israele, con la sua forte base elettorale cristiano-evangelica, ne uscirà vittorioso, e un’altra cosa sarà se quel giorno sancirà il trionfo del Partito Democratico sempre più anti-israeliano e con la sua ala radicale rumorosa e sempre più dominante.

Due universi strategici divergenti per Israele

L’esito elettorale di novembre determinerà gran parte del destino di Israele, proprio come è accaduto con i risultati delle presidenziali del 2016.

Se poi i risultati fossero andati come previsto, l’ambasciata americana sarebbe ancora a Tel Aviv; non ci sarebbe stato alcun riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele; non ci sarebbe stato alcun de-finanziamento della fraudolenta UNRWA o della perniciosa OLP; non ci sarebbe stato alcun riconoscimento americano della sovranità di Israele sul Golan; non ci sarebbe stato alcun ritiro statunitense dal terribile accordo del 2015 sul nucleare iraniano e non ci sarebbero state le sanzioni punitive contro Teheran; non ci sarebbe stato alcun riconoscimento da parte di Washington della legittimazione delle comunità ebraiche oltre la Linea Verde del 1967.

Alcuni di questi vantaggi storici – anzi, forse tutti – potrebbero essere ribaltati se il candidato del Partito Democratico arrivasse alla Casa Bianca. Pertanto, se il patto tra Israele ed EAU venisse accolto come un sostanziale successo di politica estera per l’amministrazione Trump, che lo aiuterebbe a mantenere il potere alle elezioni di novembre, quello sarebbe il più grande vantaggio strategico che ne deriverebbe per Israele.

Ciò non significa che il patto emergente non abbia vantaggi intrinsechi di per sé. Gran parte dei profitti pubblicizzati – tanto diplomatici quanto di natura economica, forse anche di sicurezza – non sono prospettive inverosimili. Tuttavia, è ancora presto per stappare lo champagne e per festeggiare il loro scopo e, di certo, la loro durata.

Una successione di castelli di sabbia

In passato, gli accordi con i Paesi arabi non furono all’altezza delle rosee aspettative suscitate quando vennero firmati.

Questo è certamente vero per quanto riguarda gli Accordi di Oslo, conclusi in pompa magna nel 1993 sul prato della Casa Bianca.  La pretesa di inaugurare l’alba di un “Nuovo Medio Oriente” dal Kuwait a Casablanca, con la pace e la prosperità che avrebbero rimpiazzato l’animosità e l’aggressione, si è rivelata piuttosto foriera di traumi e tragedie per gli israeliani, e di morte e distruzione su scala più grande per gli arabi palestinesi.

Nemmeno l’accordo con la Giordania ha incoraggiato gran parte dell’auspicata armonia e della reciproca volontà. Sebbene il regime hashemita, soprattutto a causa di un senso di egoismo illuminato, si sia impegnato in una efficace cooperazione in materia di sicurezza con Israele e sia riuscito a mantenere il confine più lungo dello Stato ebraico senza  grossi problemi, c’è una crescente resistenza interna all’accordo.

Come ha rilevato un analista di Medio Oriente: “Sebbene siano passati più di venti anni da quando Giordania e Israele hanno firmato uno storico accordo di pace per porre fine a decenni di guerra, molti visitatori della regione potrebbero venire perdonati per aver pensato che le due parti continuano a essere nemiche, in particolare a livello popolare”.

Grandi aspettative rimaste alte e aride?

In effetti, dal punto di vista economico, i benefici diretti della pace sono stati esigui. Pochissimi, se non nessuno, dei numerosi progetti visionari originariamente previsti sono stati realizzati.

Chiaramente, quindi, le relazioni formali non hanno prodotto alcuna diminuzione sostanziale della diffidenza e dell’ostilità popolare – qualcosa che gli artefici del patto tra Israele e gli EAU ignoreranno a loro rischio e pericolo.

Così, nelle parole di un  rodato esperto“…le critiche mosse al trattato di pace con Israele, all’antisionismo e le richieste di limitare la ‘normalizzazione’ delle relazioni e perfino di abolire lo stesso trattato, costituiscono un denominatore comune – in effetti, uno degli unici denominatori comuni – e un ‘collante’, per movimenti di opposizione e di protesta di vario tipo: di sinistra, panarabi, liberal-democratici, progressisti e islamici”.

Questa autorevole voce osserva in modo significativo: “La crescita in Giordania della società civile e del dialogo aperto, e l’incremento incontrollabile della trasparenza, rende più oneroso per il regime perseguire delle politiche impopolari. C’è molta più considerazione per l’opinione pubblica rispetto al passato. È importante osservare che i social media sono diventati molto importanti nel Regno (nonostante le misure prese per limitarli nel 2012-2013). Il Palazzo ne è molto consapevole e interviene a riguardo.”

L’accordo, quindi, è improbabile che sopravviva a un cambio di regime se la dinastia hashemita perdesse il potere a favore di un successore più radicale, o anche se si indebolisse abbastanza da non potere resistere alle richieste di annullamento.

Egitto: Non-belligeranza anziché pace?         

Allo stesso modo, l’accordo di pace con l’Egitto è stato, per la maggior parte degli oltre 40 anni trascorsi dalla sua firma, molto più un rancoroso patto di non-belligeranza piuttosto che un armonioso trattato di pace sostenuto dalla reciproca volontà. In effetti, vista la minacciosa ondata di insurrezione jihadista nella Penisola del Sinai e data l’incapacità delle autorità egiziane di contenere la violenza con le forze limitate consentite dall’accordo, il maggiore beneficio di Israele – la smilitarizzazione del Sinai – viene eroso.

Pertanto, il Cairo sta intensificando la sua presenza militare oltre i limiti concordati – spesso, con il consenso israeliano – nel tentativo di fronteggiare i signori della guerra islamisti, che invadono e devastano aree della selvaggia penisola desertica, che si trova tra i corsi d’acqua strategici del Golfo di Suez e del Mar Rosso.

In effetti, in Egitto, come in Giordania, decenni di pace formale hanno fatto poco per attenuare l’acrimonia contro lo Stato ebraico.

Alcuni esperti rilevano – rivolgendosi a coloro secondo i quali l’accordo con gli EAU è stato concluso senza aver registrato alcun progresso nella risoluzione del conflitto con i palestinesi – che il sentimento anti-Israele esistente nel mondo arabo non è necessariamente frutto della questione palestinese. Così, in seguito all’attacco del 2011 contro l’ambasciata israeliana al Cairo, l’esperto egiziano Eric Trager del Washington Institute ha scritto in modo sinistro che il sentimento anti-israeliano in Egitto non ha niente a che fare con la Palestina: “…presumere che i manifestanti egiziani che hanno attaccato l’ambasciata israeliana al Cairo venerdì scorso (…) sono stati motivati da preoccupazioni cosmopolite e filo-palestinesi mira a ignorare completamente la triste verità che gli egiziani odiano prevalentemente Israele per ragioni esclusivamente egiziane….”.

E tale esperto arguisce inoltre che, nonostante più di tre decenni di pace contrattuale: “L’orgoglio nazionale egiziano rimane legato alle precedenti guerre con lo Stato ebraico (…) accompagnato da [un] forte sentimento anti-israeliano”.

I venti politici e la banderuola del sentimento pubblico

Per coloro che potrebbero invocare il caloroso sentimento pubblico pro-Israele nei confronti di Israele / Israeliani che esiste negli Emirati, è necessaria una parola di cautela.

Dopotutto, hanno prevalso legami vibranti e sfaccettati tra due paesi musulmani non arabi che sono passati dall’essere stretti alleati strategici ad aspri avversari strategici: Iran e Turchia. In effetti, la Turchia è stato il primo paese musulmano a riconoscere Israele come stato sovrano (marzo 1949) e l’Iran, il secondo (marzo 1950).

Dai primi anni ’50 alla fine degli anni ’70 fino alla caduta dello Scià (1979), Israele e Iran hanno intrattenuto rapporti molto stretti. Dopo la Guerra dei sei giorni del 1967, una parte importante del fabbisogno di petrolio israeliano fu coperto dall’Iran.

Inoltre, il petrolio iraniano è stato spedito verso destinazioni europee tramite l’oleodotto congiunto israeliano-iraniano Eilat-Ashkelon. C’era un commercio vivace tra i paesi. Le imprese di costruzioni e gli ingegneri israeliani avevano lavorato a lungo in tutto il paese. Il vettore aereo nazionale israeliano, El Al, aveva operato frequenti voli diretti tra Tel Aviv e Teheran. I collegamenti e i progetti militari iraniano-israeliani erano in gran parte classificati ma, secondo quanto riferito, estesi, forse incluso lo sviluppo missilistico.

La portata e lo scopo della collaborazione israelo-iraniana sono illustrate drammaticamente dalle parole di Yaakov Shapiro, funzionario del ministero della Difesa incaricato di coordinare i negoziati con l’Iran dal 1975 al 1978: “In Iran ci hanno trattato come dei re. Abbiamo fatto affari con loro su una scala sbalorditiva. Senza i legami con l’Iran, non avremmo avuto i soldi per sviluppare le armi che oggi sono in prima linea nella difesa dello Stato di Israele “.

Chiaramente, c’è stato un cambiamento epocale nell’atteggiamento iraniano nei confronti di Israele, ora ampiamente denigrato con l’epiteto antisionista  di “piccolo Satana”, sottoposto a canti di “Morte a Israele” durante manifestazioni di massa e alle minacce di annientamento totale da parte dei leader dell’Iran.

Una svolta turca

Le relazioni turco-israeliane seguirono un modello in qualche modo simile a quelle iraniano-israeliane.

Fino a poco più di un decennio e mezzo fa, e l’ascesa del Partito islamista per la giustizia e lo sviluppo (AKP) di Recep Tayyip Erdoğan, Israele e Turchia si consideravano aventi molto in comune: due paesi non arabi in una regione altrimenti quasi esclusivamente araba, che condividevano una prospettivaoccidentale per quanto riguardava lo sviluppo futuro di entrambi i paesi – con Ankara un membro della NATO molto meno problematico di quanto non sia oggi, e con la ferma ambizione di aderire all’Unione Europea.

In effetti, così stretti e solidi erano i contatti bilaterali tra Ankara e Gerusalemme, che il New York Times scrisse in un articolo dell’agosto 1999: “Negli ultimi anni, Israele e Turchia hanno costruito una partnership strategica che ha cambiato il volto della politica mediorientale. Commercio e turismo stanno fiorendo in entrambe le direzioni. I piloti israeliani si esercitano nelle manovre nello spazio aereo turco e i tecnici israeliani stanno modernizzando i jet da combattimento turchi. Ci sono piani per Israele per condividere le sue competenze high-tech con la Turchia, e per la Turchia di inviare parte della sua abbondante acqua dolce a Israele [era pre-desalinizzazione] “.

Le relazioni cominciarono a deteriorarsi con l’ascesa dell’AKP e la sua presa sempre più salda sul potere in Turchia, ma in particolare dopo l ‘”Operazione Piombo fuso” dell’IDF del 2008-2009 a Gaza.

Sebbene le relazioni della Turchia con Israele non abbiano raggiunto lo stesso livello di inimicizia di quelle dell’Iran, sono ben lontane da quelle che prevalsero negli anni ’90, con Erdoğan che, in un discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha persino paragonato Israele alla Germania nazista e gli eventi di Gaza all’Olocausto.

Il “quid” vale il “quo”?

Questo è quindi lo sfondo empirico dell’accordo di normalizzazione Israele-Emirati Arabi Uniti, il cui prezzo, che a Israele è stato chiesto di pagare, è stato la rinuncia all’estensione della sua sovranità su importanti aree della Giudea-Samaria.

La questione cardinale che deve essere affrontata, quindi, è questa: il “quid” vale il “quo”?

In un mondo ideale, privo di vincoli politici e pressioni internazionali, la risposta è chiara. Anche senza affrontare l’argomento se l’accordo sia subordinato alla fornitura di aerei ultramoderni da combattimento F-35 agli Emirati Arabi Uniti e quanto sarebbe significativo questo in rapporto alla modernizzazione dell’esercito egiziano sulla scia dell’accordo di pace del 1979, la sovranità è molto più importante di un possibile accordo possibilmente effimero con gli Emirati.

Uno degli imperativi nazionali più importanti per Israele è garantire che gli altopiani che si affacciano sulla pianura costiera densamente popolata e sulla Valle del Giordano non cadano mai in mani potenzialmente ostili. Chiaramente, l’estensione della sovranità israeliana ad ulteriori aree della Giudea e della Samaria è un passo importante per raggiungere questo obiettivo.

Ciò che è sconosciuto è quali pressioni sono state esercitate su Netanyahu per cedere – solo temporaneamente, secondo lui – sulla questione della sovranità. Ci sono, tuttavia, diversi fattori che militano contro il differimento.

Sacrificare la sostanza per la cerimonia?

Uno è che se ci sarà una vittoria democratica a novembre, qualsiasi misura per estendere la sovranità sarà fuori dalla scena a tempo indeterminato.

Un altro è che prima delle elezioni di novembre, Trump è elettoralmente dipendente dal collegio elettorale evangelico ferventemente pro-sovranità. Dopo le elezioni, il suo sostegno sarà in gran parte irrilevante.

Il terzo è che se la normalizzazione con Israele è un interesse nazionale degli Emirati Arabi Uniti, perché Israele dovrebbe essere invitato a pagare qualcosa per facilitare il perseguimento di tale interesse, soprattuttovisto che gran parte dell’interazione tra i due paesi è già condotta in modo informale? È difficile accettare che la mera formalizzazione dei legami in corso valga il prezzo di rinunciare alla sovranità sul territorio strategico. Inoltre, diversi esperti ritengono che l’annessione (ovvero l’estensione della sovranità) non metterebbe seriamente in pericolo i legami tra Emirati Arabi Uniti e Israele.

In effetti, formalizzarli potrebbe, di fatto, metterli a repentaglio, poiché in tutto il mondo arabo ciò ha sollevato resistenza. Nonostante un’esibizione di bonarietà tra alcuni settori del pubblico degli Emirati Arabi Uniti, in un recente articolo, AlMonitor presenta quello che potrebbe essere l’inizio di una tempesta in corso: “I leader palestinesi hanno definito l’accordo un ‘tradimento’, una visione condivisa da molti nelle capitali della regione ricca di petrolio, anche se la fedeltà a quella causa è in qualche modo svanita tra le giovani generazioni. … Sui social network, l’hashtag ‘La normalizzazione è tradimento’ è stato di tendenza in tutta la regione negli ultimi giorni, in particolare tra i giovani attivisti sauditi “.

Questi sono segnali che gli artefici dell’accordo di Gerusalemme, Abu Dhabi e Washington farebbero bene a non trascurare.

Siamo quindi lasciati a sperare che la normalizzazione Israele-Emirati Arabi Uniti si rivelerà davvero un sostegno efficace nella coreografia di successo dello scenario davvero cruciale: le elezioni del 3 novembre.

Il modo in cui si dipanerà l’accordo Israele-Emirati Arabi Uniti e il modo in cui verrà giudicato giudicato dipenderà in modo critico dal suo esito.

Traduzione di Niram Ferretti e Angelita La Spada

https://www.jns.org/opinion/uae-israel-pact-sacrificing-substance-for-ceremony/

 

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