Editoriali

Il piano del secolo e i curatori fallimentari arabi

L’irrilevanza politica ormai raggiunta da quella che è al contempo una cleptocrazia e una agenzia di soccorso per il terrorismo, conosciuta come Autorità Palestinese, si è ormai resa del tutto palese alla luce dell’imminente piano di pace che l’amministrazione Trump presenterà a giugno.

Il cosiddetto “Deal of the Century” non ha, infatti, come proprio interlocutore l’organizzazione presieduta abusivamente da Abu Mazen, ma interlocutori politici di ben altra portata, ovvero gli stati arabi sunniti con, a fare da mosca cocchiera, l’Arabia Saudita.

Nel nuovo scenario mediorientale in cui l’Iran è tornato ad essere la minaccia principale per la stabilità regionale, quel che resta del conflitto israelo-palestinese, per i paesi arabi, è ormai da tempo più che altro un fastidio.

Dopo il fallimento della seconda  sanguinosa intifada, iniziata nel 2000 e conclusasi nel 2005, a un anno dalla morte del suo ispiratore, Yasser Arafat, gli Stati arabi hanno dovuto prendere atto definitivamente di una realtà incontestabile; Israele non solo non avrebbe fatto le valigie ma avrebbe continuato ad affrontare i suoi nemici con più efficacia e determinazione.

Alle spalle della seconda intifada c’erano altri ben più cospicui fallimenti, il cui scopo era genocida: la guerra del 1948, quella del 1967 e poi quella del 1973. Ci fu poi il fronte libanese, ma questa fu più che altro una guerra collaterale nel contesto ben più ampio della volontà araba di distruggere lo Stato ebraico.

La stanchezza e il disincanto hanno ormai prevalso sia a Riad come in Oman, a Bahrein come a Dubai. Questo non significa che Israele sia diventato virtuoso agli occhi dei paesi sunniti, sarebbe un grave errore pensarlo e sostenerlo, ma non è più considerato il problema principale in Medioriente.

E’ in questo scenario mutato che si è inserita con risolutezza la volontà americana di presentare un piano di cui non si conoscono esattamente i dettagli ma che, dalle indiscrezioni emerse, si baserà soprattutto sull’aspetto economico con 86 miliardi di dollari da investire. Soldi che dovrebbero arrivare interamente dall’arcipelago sunnita a fronte della protezione americana e che, in modalità ancora non specificate, solleverebbero l’economia palestinese. In questa prospettiva verrebbe in essere una entità palestinese a sovranità limitata che occuperebbe una parte della Cisgiordania sulla falsa riga degli Accordi di Oslo del 1993-1995 e con capitale ad Abu-Dis, città sobborgo di Gerusalemme Est. Si parla anche di una sopraelevata che dovrebbe congiungere la Cisgiordania a Gaza a patto che Hamas ceda le armi.

Al di là dell’estrema improbabilità di questa ultima condizione, resta un fatto da tenere bene a mente. Gli Stati arabi ritengono che il fuoco acceso del conflitto (o meglio quelle che sono ormai le sue sporadiche fiammate, di cui Hamas, e oggi anche la Jihad islamica insediata a Gaza, rappresentano il principale elemento incendiario), abbia da spegnersi definitivamente.

Il nemico, per loro, non è più Israele, ma l’Iran. Israele può sì continuare ad essere un pugno nell’occhio per la concezione purista islamica di un Medioriente a dominio interamente musulmano, ma va ingoiato come un boccone amaro, mentre l’Iran rappresenta realmente e concretamente una minaccia esistenziale. E su questa posizione convergono sia gli USA che Israele.

Dunque, poco importa, se per l’Autorità Palestinese, il piano americano che vedrà la luce nascerebbe già morto, perché per attori arabi ben più rilevanti, morta è l’idea di un futuro Stato palestinese che possa mettere a repentaglio la sicurezza di Israele. E morta è l’idea, già inizialmente improponibile, di fare rientrare in Palestina milioni di rifugiati abusivi creati artificialmente nei decenni dall’UNRWA, quella stessa UNRWA che gli Stati arabi uniti finanziano di malavoglia e in quota minore a quello che era il finanziamento americano.

Non ci sarà quondi un accordo migliore per Abu Mazen e la sua organizzazione, ormai ridotti a mesti testimoni di una deriva storica i cui curatori fallimentari sono diventati coloro che in passato li appoggiavano.

 

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