Editoriali

Il ritorno dei talebani e il potere del simbolico

Difficile, se non impossibile, non considerare l’uscita di scena americana dall’Afghanistan come un’enorme diminuzione del prestigio degli Stati Uniti e, simbolicamente, una sconfitta. L’esercito americano non è stato certo battuto sul terreno, e il risultato da ottenere, disarticolare l’allora compatta Al Qaida e costringere i talebani alla fuga, ottenuto velocemente vent’anni fa oggi è passato in secondo piano. Appare invece in tutta la sua evidenza il fallimento politico e morale.

L’obbiettivo politico, quello di ristrutturare democraticamente il paese è fallito, oggi l’Afghanistan torna nelle braccia dell’estremismo islamico. A ciò si assomma l’onta morale di abbandonare frettolosamente e cinicamente coloro che hanno collaborato e creduto in questi vent’anni alla possibilità se non di un cambiamento vero, di un miglioramento.

Ma la sconfitta assume anche un’altra fisionomia, quella di regalare all’Islam più agguerritamente militante un trofeo da mostrare, facendolo gonfiare di orgoglio e di retorica anti-occidentale. Hamas e l’Iran si congratulano per il ritorno dei talebani, e insieme a loro non possono non dirsi contenti tutti i musulmani per i quali il jihad è l’unica strada da perseguire, la volontà ultima di Allah, incarnata nella sura 9 la quale incita al combattimento e alla sottomissione degli infedeli, considerata da uno dei massimi esegeti del Corano, al-Bukhari, come l’ultima a essere stata rivelata.

Nessuno che sia dotato di un minimo senso della realtà può pensare che il volto “moderato” del lupo talebano che al momento si presenta ai media (“Non perseguiteremo”, “Le donne non verranno discriminate”, ecc) non sia altro che una maschera sottile pronta ad essere levata appena la presa sul potere si consoliderà in modo fermo.

Kabul, con il rinnovato Emirato islamico, diventa nuovamente punto di riferimento per i nemici occidentali, feticcio ideologico e, al contempo, luogo concreto e (ancora) simbolico di una riscossa, se non di un ricominciamento. E’ la portata di questo aspetto che deve essere compresa per valutare adeguatamente quale rilevanza  essa assume nel presente.

Il ricominciamento è il ritorno dell’uguale, è il tempo mitico che per l’Islam è parte essenziale della propria percezione di sè. Sconfitto è infatti il tempo lineare della storia degli infedeli, con la loro idea di portare il “progresso” là dove esso era già presente nella forma dell’Eterno inverato in virtù dell’applicazione rigorista del dettato Coranico.

Nella prospettiva teologica musulmana la storia è pura contingenza, duraturo è solo ciò che è sempre stato fin dall’origine, la volontà di Allah che il Corano manifesta. I talebani nuovamente al potere riportano il tempo indietro come se questi vent’anni di presenza occidentale non ci fossero mai stati.

Il messaggio arriva chiaro a tutti coloro che possono e vogliono comprenderlo: la forza degli invasori è solo un’illusione, potrà durare anni, forse anche secoli, ma cosa è mai un secolo rispetto al tempo sacro, alla sua ciclicità?

La più grande potenza militare e tecnologica del pianeta non può nulla contro ciò che è stabilito dall’origine. Trasversale, il messaggio arriva anche ad Israele che l’Islam considera corpo estraneo in Medioriente. Ridurre il ritorno dei talebani in Afghanistan a una pura questione provinciale, a un episodio a sè, significa non avere compreso lo spessore della sua forza persuasiva, della  sua simbolicità.

Ora che l’11 settembre si avvicina (altro simbolo), data epocale e fatidica, in cui il terrore che veniva dall’Afganistan riuscì a colpire gli Stati Uniti, il paese origine e teatro operativo di  Al Qaida è di nuovo potenziale laboratorio per rinnovate iniziative jihadiste.
L’Afghanistan insegna all’Islam miltante che bisogna sapere solo attendere.

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