Editoriali

La follia di Oslo

Il 13 settembre di 25 anni fa, sotto l’egida di un sorridente Bill Clinton, Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si strinsero la mano sul prato della Casa Bianca a Washington per siglare l’accordo raggiunto. Avrebbe dovuto essere una tappa epocale verso la pace, l’inizio di una nuova era di concordia. Fu l’inizio di un lungo incubo.

Da allora gli Accordi di Oslo, fortissimamente voluti da Shimon Peres, promossi da Clinton e infine appoggiati da Rabin, hanno lasciato sul terreno, oltre ai 1600 morti israeliani che causarono, anche le icone infrante di chi li aveva voluti. Voluti contro l’evidenza schiacciante della realtà. E la realtà diceva che il lord of terror Yasser Arafat, all’epoca un paria rifugiato a Tunisi, esecrato da tutto il mondo arabo dopo avere portato a compimento l’ultimo dei suoi infami tradimenti appoggiando l’invasione di Saddam Hussein nei confronti del Kuwait che lo aveva ospitato, non poteva essere in alcun modo un partner per la pace. Era come se, durante gli anni ’20, in pieno proibizionismo, gli USA avessero stipulato un accordo con Al Capone perché non smerciasse alcolici clandestinamente e si astenesse dal crimine organizzato, basandosi su una sua promessa. Ma Arafat era peggio di Al Capone, più subdolo e sanguinario.

Gli Accordi di Oslo sono stati il monumento fallimentare all’incompetenza, alla vanità, alla stupidità, alla mancanza radicale di realismo di un gruppo dirigente che arrivò a imporli a Israele per uno scarto di due voti, uno dei quali dovuto a un delinquente e bugiardo compulsivo come Gonan Segev.

Il loro presupposto era “terra in cambio di pace”. Ebbero invece la prima e la seconda intifada, risultato prevedibile dell’avere installato nel cuore di Israele una entità criminale come l’OLP, la quale ovunque era stata precedentemente, dall’Egitto, alla Giordania, dal Libano alla Siria, aveva cercato di destabilizzare i regimi ospitanti ed era stata cacciata con il suo leader, il “Mazzini” (secondo Bettino Craxi) egiziano Yasser Arafat, finto “palestinese”.

La follia di Oslo è stata fino ad oggi il paradigma imperante della politica israeliana, una sorta di dogma a cui non si poteva contrapporre nulla altro. Esso ha creato il fantasma ideologico dei due Stati, uno palestinese e uno ebraico, conviventi in pace, e contemporaneamente ha creato la menzogna persistente che se ciò non avveniva non era perché lo scopo di Arafat, fin dal principio, fosse sempre stato quello di rimuovere permanentemente dalla mappa del Medioriente, “l’entità sionista”, ma perché Israele non concedeva abbastanza. Ma non era mai abbastanza per Arafat, il quale, parlando in arabo ai suoi dopo avere mostrato un volto conciliante all’Europa che lo riceveva con tappeti rossi, diceva che il jihad doveva continuare, come fece a Johannesburg nel 1993 ad accordi appena stipulati.

Il problema però non fu Arafat. Dopotutto Arafat va ringraziato retrospettivamente per l’impazienza che dimostrò nel avere voluto aprire l’offensiva terrorista nei confronti di Israele. Se avesse aspettato come aveva fatto Maometto, dopo avere siglato con i Meccani la pace di Hudaibiya, quando capì che erano troppo forti per poterli sconfiggere, per poi attaccarli solo due anni dopo infrangendo la tregua che sarebbe dovuta durare dieci anni, avrebbe probabilmente avuto il suo Stato sulle colline della Giudea e Samaria.

Shimon Peres, Yitzhak Rabin, Yossi Belin, e successivamente Ehud Barak, gli diedero la possibilità di ottenerlo, offrendoglielo sontuosamente, ma lui rilanciò sempre la posta. Da una parte perché acconsentendo alle proposte israeliane avrebbe perso di credibilità nei confronti di chi dentro Fatah era ancora più intransigente di lui, al contempo avvantaggiando Hamas, dall’altra per l’incapacità di progettare una strategia a lungo termine.

Nella ricorrenza di uno dei peggiori accordi politici mai stipulati, va riconosciuto alla debolezza umana e politica di un terrorista e non alla forza e alla determinazione della classe politica israeliana se oggi nel cuore  di Israele non è nata un’entità jihadista avente come obbiettivo la sua distruzione.

 

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