Editoriali

La minaccia più grande per Israele

A quali condizioni gli Stati Uniti sono disposti a rientrare nell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), che Barack Obama volle fortissimamente volle nel 2015 e che Donald Trump, suo successore alla Casa Bianca, stralciò nel 2018? Quale fondamento hanno i rapporti inviati al nuovo primo ministro israeliano, Naftali Bennett da parte dell’ex capo dell’intelligence militare Aharon Zeevi Farkash e di alcuni ufficiali di alto rango della Commissione Israeliana per l’Energia Atomica, secondo cui gli Usa sarebbero disposti a sollevare  l’Iran da buona parte delle sanzioni volute da Trump in cambio di un piatto di lenticchie? Lo sapremo presto. Quello che sappiamo al momento è che, come annunciato, il nuovo presidente dell’Iran è Ebrahim Raisi, il giudice ultraconservatore assai benvoluto dalla Guida Suprema Ali Khamenei, già membro di spicco della famigerata “Commissione della morte”, il tribunale di salute pubblica iraniano incaricato di ordinare l’esecuzione di migliaia di oppositori del regime nel 1988.

La sua ombra dunque si staglia su Vienna, dove, nello stesso fine settimana della sua elezione, c’è stato il sesto round di incontri tra gli emissari iraniani e quelli dei sei paesi che parteciparono all’accordo del 2015 siglato nella capitale austriaca.

“La vittoria di Raisi rappresenta l’evidenza conclusiva della volontà di Khamenei di radicalizzare la condotta dell’Iran in politica estera, relativamente al nucleare e alle attività terroristiche” ha tweetato l’ex vice capo del Mossad Ram Ben-Barak, aggiungendo, “Una grossa sfida è stata posta alla porta dell’occidente e di Israele”.

Si tratta di una sfida che inizia nel 1979, anno della presa del potere di Ruhollah Khomeini e che non ha mai smesso da allora, ma di cui l’Occidente, diversamente da Israele, non si è mai particolarmente preoccupato, preferendo, progressivamente,  intrattenere amichevoli rapporti con il regime di Teheran e sempre sottovalutando la portata reale della minaccia che esso rappresenta per i suoi interessi e i suoi valori.

Nel 2017, in una intervista per L’Informale, Matthias Küntzel, tra i maggiori esperti internazionali di Iran e jihadismo così si espresse a proposito del JCPOA:

“Fin dal principio questo accordo è stata una scommessa sul futuro. I cinque paesi membri del Consiglio di Sicurezza più la Germania hanno scommesso che, se il desiderio iraniano di avere l’atomica sarebbe stato soddisfatto in parte nel medio periodo e in parte nel lungo periodo, i così chiamati “moderati” si imporranno e non solo l’Iran si aprirà all’Occidente ma giocherà un ruolo stabilizzante nella regione, magari anche perdendo interesse per le proprie armi nucleari. Questa scommessa si è basata su un giudizio completamente errato delle premesse ideologiche che determinano l’azione di Teheran. Nel frattempo la realtà si è incaricata di mostrare che pessima scommessa abbia fatto l’Occidente. Il regime iraniano ha intensificato la propria azione aggressiva nei confronti di Israele, si è consolidato ulteriormente in Libano grazie al suo delegato, Hezbollah, mentre la Siria è in procinto di essere trasformata in un protettorato iraniano e l’Iraq e lo Yemen sono stati destabilizzati attraverso l’impiego di forze appoggiate dall’Iran”. 

Quattro anni dopo queste parole non solo i “moderati” non si sono imposti e non è avvenuto nulla di qaunto previsto, ma oggi, al potere, è salito un oltranzista.

Küntzel, dopo solo due anni dall’accordo poteva già verificare il suo fallimento, del tutto prevedibile per chi non sia accecato dall’illusione che criminali e fanatici riempiti di soldi si trasformeranno in educande. La stessa cosa accadde nel 1993, quando Israele, sotto egida americana, legittimò con gli Accordi di Oslo Yasser Arafat come statista impiantando la sua organizzazione terroristica nel cuore del paese. L’idealismo USA vorrebbe sempre trasformare le pietre in pane ma non gli è successo mai.

“A un regime di brutali boia non può essere permesso di avere ordigni nucleari” ha dichiarato il neo premier Naftali Bennett, riecheggiando ciò che in tutti questi anni ha sempre affermato Benjamin Netanyahu, inascolatato dagli Stati Uniti fino a quando Donald Trump non divenne presidente. Ma ora, il presidente in carica è colui che quando Obama siglò l’accordo sul nucleare era suo vicepresidente, lo stesso che ha imbarcato a bordo una cospicua parte dei funzionari che nel secondo quadriennio della presidenza del suo ex principale, si attivarono per arrivare all’accordo con Teheran.

Non c’è bisogno di essere degli auguri per vedere che non sono buoni i segni.

 

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