Editoriali

La necessità di andare fino in fondo

Il coro è unanime e salmodia a voce univoca la parola “catastrofe”, una delle più gettonate dopo quella che non teme rivali, “genocidio”.

La catastrofe sarebbe quella che avrebbe luogo se Israele attaccasse Rafah, definitivo avamposto di Hamas ai confini con l’Egitto. Lì si trovano adunati gli ultimi battaglioni dell’organizzazione terrorista salafita, lì, con molte probabilità, c’è la parte più cospicua degli ostaggi ancora nelle loro mani, lì c’è l’alto addensamento umano degli sfollati. E sono loro, naturalmente, che preoccupano i genuini e frementi tutori dei diritti umani, i vari Borrell, Lazzarini, Parolin, altri, tutti preoccupati per la loro sorte.

Anche Hamas si preoccupa, come è noto ha sempre avuto una cura particolare per la propria popolazione e dunque sollecita il Sudafrica a ricorrere di nuovo alla Corte dell’Aia, perché intervenga contro il genocida. Va fermato, prima che continui nell’opera già attuata, il genocidio in corso a Gaza, dove, dopo quattro mesi, sarebbero morte trentamila persone di cui però diecimila andrebbero computati come jihadisti, quindi, sottraendoli, i morti sarebbero ventimila su due milioni e trecentomila abitanti della Striscia, neanche l’un percento. L’importante, tuttavia, è costruire una realtà parallela, è lo scopo primario della propaganda, dove, insieme a genocidi inesistenti convivono l’apartheid e la terra palestinese, mi raccomando, palestinese, che gli ebrei hanno rubato ai legittimi possessori.

In un recente articolo apparso su Tablet, https://www.tabletmag.com/sections/israel-middle-east/articles/israel-winning-gazaEdward Luttwak analizza l’efficacia inesorabile della macchina militare israeliana a Gaza:

“Indipendentemente da ciò che accadrà da ora in poi, i combattimenti a Gaza fino ad oggi sono stati un’eccezionale impresa militare. Una stima prudente – la più bassa che abbia visto – è che circa 10.000 combattenti di Hamas sono stati uccisi o resi disabili terminali, insieme a un numero identico di feriti che potrebbero o forse no combattere di nuovo in futuro. Il sensazionale rapporto di 1 a 50, o abbastanza prossimo, raggiunto dall’IDF nella lotta contro Hamas a Gaza è ancora più eccezionale per motivi che, ufficialmente né gli americani né gli israeliani si preoccupano di menzionare, anche se per ragioni diverse”.

Nessuno che sia dotato di senso della realtà e dunque sappia applicare il raziocinio in misura adeguata, è  messo nelle condizioni di non capire che a fronte dei mezzi militari e umani dell’IDF, Hamas non può avere scampo. Il primo a saperlo è Hamas stesso. Da questa consapevolezza si origina il tentativo forsennato di bloccare politicamente l’offensiva israeliana, muovendo le piazze, muovendo l’ONU,  muovendo la UE, muovendo paesi amici come il Sudafrica, muovendo alleati e simpatizzanti anche dentro il Dipartimento di Stato americano.

Il cessate il fuoco invocato a destra e manca è il salvacondotto di cui Hamas ha disperatamente bisogno per inceppare la guerra e fare sì che Israele, una volta interrotta, non possa più riprenderla. Le trattative sugli ostaggi rientrano in questa strategia, anche se finora le richieste di Hamas a Israele sono state così iperboliche da dovere essere respinte.

Il tempo scorre, è infatti, come in tutte le guerre, una questione di tempo.

A Mosul, nel 2017 l’assedio della città irachena dove si era asserragliato l’ISIS, durò nove mesi e costò secondo stime non ufficiali, tra i trenta e i quarantamila morti tra i civili, (nessuno profferì una sola volta la parola genocidio), ma a Mosul non c’erano ottocento chilometri di cunicoli e non c’era un addensamento umano come a Gaza.

Dopo quattro mesi, l’IDF, nelle condizioni date, ovvero tenendo conto del contesto operativo e delle limitazioni imposte, è avanzata spettacolarmente, con meno di trecento caduti a fronte di diecimila jihadisti uccisi. Ci vuole poco a comprendere chi sta vincendo e chi sta perdendo, anche se, la vittoria, è solo nel finale, ed è quella che molti, troppi non vogliono, tra cui anche gli Stati Uniti. Darebbe a Israele troppo lustro e autonomia, rafforzerebbe il governo in carica e dunque Netanyahu, quindi poco respiro avrebbe un futuro e fantomatico Stato palestinese imposto a spese della sicurezza di Israele e morirebbe in culla una coalizione jihadista a governo della Striscia. I progetti dell’Amministrazione Obama, pardon, Biden, sarebbero ridotti in trucioli.

A Benjamin Netanyahu tutto questo è assai chiaro, come gli è chiaro che a Rafah occorre entrare se davvero vuole vincere e “riparare” alla tragedia immane del 7 ottobre scorso.

 

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