Editoriali

La “resistenza palestinese” e la realpolitik

L’apertura di credito annunciata dagli Emirati Uniti nei confronti di Israele, al di là degli entusiasmi estremi che ha suscitato, degli ottimismi senza riserve e dubbi, certifica un fatto incontestabile, la residualità della “causa palestinese”.

E’ vero, essa ha ancora solerti promotori, in primis l’Iran e oggi la Turchia, con il Qatar un po’ più defilato, e naturalmente le sigle terroriste, Hamas, Jihad islamica, Hezbollah. Non manca all’appello, nemmeno la UE, che sbilanciata fin dal principio a favore arabo, non ha mai perso un’occasione per criticare Israele, cerando di ingerire come ha potuto all’interno del conflitto. Ma tutto questo appare da un po’ come un canovaccio anacronistico, una fotografia sbiadita. In realtà una parte consistente del mondo arabo, già con il fallimento della Seconda intifada, aveva progressivamente preso le distanze da Abu Mazen e soci, considerati sempre più come una pratica molesta a cui dovere, per rituale, conferire credito, ma, appunto, niente più di questo.

Gli anni della crisi petrolifera, in cui i potentati del Golfo ricattavano la CEE, perchè prendesse (come fece) le distanze da Israele, sono passati. E oggi, prima l’Arabia Saudita con la dichiarazione, nel 2018, del principe Mohammed Bin Salman, secondo il quale Israele  “Ha diritto alla sua terra”, e poi con il passo fatto da un altro principe sunnita, Mohammed bin Zayed, ci troviamo altrove. Dove, esattamente? Non lo sappiamo ancora, è da vedere, ma una cosa possiamo dirla, la strategia, annunciata da Donald Trump in modo sibillino durante la conferenza stampa che si tenne alla Casa Bianca nel febbraio del 2017, a seguito del suo primo incontro ufficiale con Benjamin Netanyahu, di una cooperazione con i paesi arabi, sta dando i suoi frutti. E il primo e il più maturo si era già intravisto. L’interlocutore principale per una intesa portatrice di pace, non sarebbe più stata l’Autorità Palestinese, con la quale Trump perse in fretta la pazienza, ma altri attori, ben più influenti, i sauditi, gli emiratini.

L’irrilevanza politica di Abu Mazen l’avevamo già certificata qui, due anni fa, quando scrivevamo:

Al di là del supporto di cui essa gode in Europa, soprattutto a sinistra e in modo oltranzista nelle frange più radicalizzate di quest’ultima e dell’estrema destra neofascista, gli stati arabi sunniti, con l’eccezione della Turchia e dell’Iran sciita, hanno da tempo voltato le spalle alle rivendicazioni palestinesi. In sella al presente, oggi, ci sono questioni percepite come assai più rilevanti, e di fatto, la saldatura tra l’Amministrazione Trump e l’Arabia Saudita, il cui nuovo volto è rappresentato dal giovane principe regnante Mohamed Bin Salman, il quale verrà ricevuto la settimana prossima alla Casa Bianca, certifica un profondo cambiamento dopo il grande freddo intercorso con l’Amministrazione Obama. 

In questo scenario profondamente mutato, da quando Yasser Arafat nel 2000 chiamava la Seconda Intifada, Abu Mazen continua a muoversi come Hiro Onoda nella vegetazione di Lubang, incapace di capire che il nemico eterno sionista ha già vinto da decenni la battaglia sul terreno, e che malgrado la fenomenale macchina di delegittimazione messa in piedi dagli stati arabi con l’ex Unione Sovietica alla fine della Guerra dei Sei Giorni, i palestinesi hanno definitivamente perso la loro guerra contro Israele. Cosa che l’Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania, e gli Emirati arabi hanno compreso bene, ma che mai si è palesata così come accade oggi.

La “resistenza” contro Israele, perseguita da Hamas, e finanziata e propagandata dall’Iran è, ormai un cadavere ideologico, il feticcio degli irriducibili che vogliono rappresentarsi ancora Israele come una impresa colonialista, la mano longa dell’imperialismo occidentale, e i palestinesi gli “indigeni” vittime di cotanta protervia. E’ una narrazione ancora in voga, tenuta in vita, in Occidente, dalle solerti cure della sinistra estrema e meno estrema, ma che sempre più schricchiola per vetustà sotto l’incalzare degli eventi.

Certo, la parte del mondo arabo che si muove incontro a Israele, lo fa soprattutto per realpolitik, non per afflato, e c’è da considerare con la dovuta cautela questo avvicinamento, ma resta il fatto che Stati come l’Arabia Saudita, custode della Mecca e ora gli Emirati (e prima di loro, con alti e bassi l’Egitto, la Giordania è sempre stata ostile a Israele malgrado il trattato di pace del ’94), non considerano più Israele come un’anomalia del Medioriente (e anche qui, va detto che sono stati costretti dalla sua forza e resilienza).

A questo punto appare sempre più evidente che non sarà il vecchio capobastone di Ramallah, a sedersi a un eventuale tavolo con Israele per negoziare quella che dovrebbe essere, come di fatto è, una resa. Il nome di Mohammed Dahlan, ex capo di Fatah e rivale fin dal 2011 di Abu Mazen, rifugiatosi da anni negli Emirati, prende quota.

L’estensione di sovranità è scomparsa dalla scena, ostacolo ingombrante a intese e ad abboccameti, refrigerata, forse criogenata. Ora altri attori affollano la scena.

 

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