Editoriali

La verità “artistica” dei fatti

A Jenin, in Giudea e Samaria (sotto la tutela palestinese) va in scena un canovaccio già rodato. Bisogna risalire al precedente prima di soffermarsi sui fatti attuali, la morte della corrispondente di Al Jaazira, Shireen Abu Akleh. Il precedente è noto.

Nel pieno corso della Seconda Intifada, aprile 2002 vi fu a Jenin un combattimento virulento tra esercito israeliano e palestinesi. Gli israeliani vennero accusati di avere ucciso deliberatamente 500 persone, che presto aumentarono esponenzialmente, raggiungendo, secondo la solerte voce di Ahmed Abdel Rahman, allora Segretario generale dell’Autorità Palestinese, l’ordine delle migliaia. Si parlò di genocidio. Prima che le cifre reali dei deceduti venissero rese pubbliche, 53 palestinesi e 23 soldati israeliani, la versione falsa del massacro era stata diffusa con successo.

Lo stesso anno il regista arabo israeliano Mohammad Bakri realizzò un film dal titolo, Jenin, Jenin nel quale i soldati israeliani venivano mostrati come assassini a sangue freddo che sparavano su donne, anziani e bambini. Portato successivamente in tribunale dai soldati reduci dell’episodio, il regista dichiarò che la sua versione dei fatti era “artistica”, ovvero intesa a presentare la “verità palestinese”, in altre parole, a farsi megafono della propaganda.

Chi sia effettivamente responsabile della morte della giornalista, non è dato al momento saperlo con certezza. Il proiettile che l’ha uccisa potrebbe essere stato sparato indifferentemente da un’arma in dotazione all’IDF o ai palestinesi, ma come in Jenin Jenin, quello che conta non è, da parte palestinese, appurare la verità, l’importante è attribure a Israele la morte della donna, cercando di fare in modo che essa appaia deliberata. Se, infatti, per Mohammad Bakri, i soldati israeliani nel 2002 sparavano deliberatamente sui civili, perchè, vent’anni dopo, non dovrebbero farlo sui giornalisti? E’ irrilevante per i tessitori di menzogne che, per Israele, commettere un omicidio di questo tipo non avrebbe alcun senso, equivarrebbe inffatti a calamitarsi addosso come è puntualmente accaduto, l’attenzione e la riprovazione internazionale, quello che conta, per la propaganda palestinese, è la versione “artistica” del fatto: un cecchino israeliano che prende accuratamente la mira e uccide la giornalista “scomoda”. Mentre è del tutto plausibile che la Abu Akleh sia stata effettivamente uccisa involontariamente, visto il contesto, da un proiettile israeliano. Ma un’uccisione involontaria da parte israeliana, se così fosse, fa meno scalpore di un’uccisione intenzionale.

I fatti spariscono velocemente dalla scena la dove deve dominare incontrastata la narrazione dei palestinesi vittime e degli israeliani carnefici, narrazione che va avanti imperterrita dal 1967 ad oggi. E così, anche l’episodio successivo, in cui durante i funerali della giornalista, vi è stato uno scontro tra la polizia israeliana e alcuni dei manifestanti al punto che la bara della defunta ha rischiato di sfuggire dalle mani di chi la stava trasportando, deve, sotto la lente di ingrandimento degli osservatori internazionali, apparire come un’ulteriore prova della brutalità israeliana.

Che la polizia sia intervenuta per rispondere a provocazioni di un gruppo di facinorosi lanciatori di sassi e intenzionati a deviare il percorso del funerale rispetto a quello concordato, deve essere scansato a lato. Al centro della scena, sotto i riflettori, bisogna che appaia, ancora una volta, il confezionamento “artistico” dei fatti, l’immagine della bara che sta per scivolare a terra, mentre la polizia israeliana interviene nel tumulto.

La sceneggiatura ha un tema semplice ed efficace: gli israeliani hanno ucciso deliberatamente una giornalista araba che stava documentando i fatti (quali fatti? quelli a monte, a giustifcazione dell’ingresso dell’esercito a Jenin, sono quattro attentati in un mese, che hanno causato la morte di diciannove  cittadini israeliani) e ora disonorata anche da morta.

Non una lettera, non una virgola dell’apparato accusatorio può essere modificata. Il colpevole è prestabilito, e, insieme ad esso, la condanna.

 

 

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