Israele e Medio Oriente

La vittoria parziale di Israele, i paesi arabi si fecero da parte

Israele celebra il 75esimo compleanno nel 2023, un anno che segnerà anche una tappa importante nel conflitto israelo-palestinese.  

Durante i primi 25 anni di Israele, dal 1948 al 1973, gli Stati arabi, con Egitto, Giordania e Siria in testa, seguiti da Iraq, Arabia Saudita e Libano, lo combatterono cinque volte dispiegando forze armate convenzionali. Questi Paesi costruirono enormi eserciti, si allearono con il blocco sovietico e combatterono Israele sul campo di battaglia. Dopo il 1973, gli Stati arabi si fecero tranquillamente da parte e stettero alla larga da nuovi conflitti per i successivi cinquant’anni, vale a dire per il doppio del tempo trascorso a combattere attivamente contro Israele. 

Le poche eccezioni a questa guerra fredda, in particolare, uno scontro aereo siriano nel 1982 e un attacco missilistico iracheno nel 1991, aiutano a fare il punto. La brevità, le limitazioni e il fallimento di tali azioni rafforzarono il buonsenso di non scontrarsi con Israele. La forza aerea siriana perse 82 velivoli, mentre quella israeliana non subì alcuna perdita. E 18 diversi  attacchi missilistici iracheni uccisero un solo israeliano. Il regime iracheno e siriano avviarono entrambi dei programmi nucleari, per poi abbandonarli dopo essere stati colpiti dagli attacchi israeliani, rispettivamente nel 1981 e nel 2007. 

Sebbene dopo il 1973 la maggior parte degli Stati arabi abbia continuato ad attaccare verbalmente ed economicamente Israele, quei Paesi rinunciarono cautamente a ingaggiare uno scontro  militare con esso e poiché l’attenzione venne focalizzata su altre questioni come la minaccia iraniana, l’avanzata islamista, le guerre civili in Libia, Yemen, Siria e in Iraq, la Turchia che assumeva i connotati di Stato canaglia e la siccità, i vecchi tabù antisionisti persero gran parte del loro mordente nei Paesi arabofoni.   

Sei Stati arabi continuarono a stabilire piene relazioni diplomatiche con Israele: l’Egitto nel 1979, la Giordania nel 1994 e gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Marocco e il Sudan nel 2020. (Altri due Paesi arabi iniziarono a muoversi in questa direzione, ma fallirono: il Libano nel 1983 e la Siria nel 2000.) Si ritiene probabile che anche l’Arabia Saudita li segua, ma dopo che l’87enne re Salman non siederà più sul trono, il che sposterebbe in modo rilevante il centro di gravità arabo a favore dell’accettazione del diritto di Israele di esistere. 

I cambiamenti sono avvenuti in vari modi. Nel 2019, il ministro israeliano dello Sport è scoppiata in lacrime mentre ad Abu Dhabi suonavano le note dell’Hatikvah, l’inno nazionale di Israele, per la vittoria di un atleta israeliano. Nel solo mese disettembre 2020, il predicatore della Grande Moschea della Mecca ha menzionato i buoni rapporti di Maometto con gli ebrei, la Lega Araba ha respinto una risoluzione anti-israeliana avanzata dai palestinesi e il  governo degli Emirati Arabi Uniti ha “consigliato” a tutti gli hotel di includere opzioni di cibo kosher” in ogni loro offerta gastronomica dal servizio in camera ai menù dei ristoranti. 

Quattro ministri degli Esteri arabi che hanno partecipato a una riunione ospitata da Israele all’inizio del 2022 (il Summit del Negev) hanno espresso questo nuovo consenso. Più concretamente, Israele ha venduto attrezzature militari avanzate agli Emirati Arabi Uniti, al Bahrein e al Marocco per un totale di oltre 3 miliardi di dollari in due anni; nel 2021, ciò rappresentava il 7 per cento degli 11,3 miliardi di dollari di vendite militari israeliane globali. Ovviamente, le attrezzature militari vengono vendute esclusivamente a quei governi che dovrebbero rimanere alleati a lungo termine. 

Ma quando gli Stati arabi sono usciti dall’arena antisionista, sono entrati in scena una serie di altri attori: i palestinesi, gli islamisti, il governo iraniano e quello turco nonché la Sinistra. Le forze armate convenzionali, ossia navi, carri armati, aerei e razzi, sono quasi scomparse dal campo di battaglia, sostituite da altri metodi di attacco: accoltellamenti, aquiloni armati di ordigni incendiari, attentati suicidi, armi di distruzione di massa e il Movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) . 

Perché si è verificato questo cambiamento sottovalutato e quali sono le sue implicazioni? Un po’ di storia aiuta a rispondere a queste domande.

I Paesi arabi si ritirano  

I leader arabi hanno ribadito durante i loro 25 anni di conflitto con Israele che avrebbero perseverato sempre. Il 10 giugno 1967, appena quattro giorni dopo la guerra dei Sei giorni si era conclusa in modo disastroso per loro, ad esempio, l’uomo forte algerino  Houari Boumédiène annunciò: “Se perdiamo la nostra battaglia, non perderemo la guerra (…) la guerra deve continuare (…) fino a quando la giustizia non sarà ristabilita, fino a quando l’aggressione non sarà distrutta e fino a quando ciò che è stato imposto dalla forza bruta non sarà annullato. (…) Non dobbiamo deporre le armi”. Un giorno dopo, ribadì il messaggio, parlando di “strada per la vittoria (…) di continuare la battaglia indipendentemente da quanto sia difficile o dal prezzo che dovremo pagare”. Nonostante questa baldanza, gli Stati arabi abbandonarono quelle armi solo sei anni dopo. 

Sono numerosi i fattori che hanno contribuito alla ritirata dei Paesi arabi: le perdite sul campo di battaglia, l’opinione pubblica radicalizzata, il pessimismo, l’economia, l’anarchia, l’islamismo e l’Iran. 

Perdite sul campo di battaglia: gli Stati arabi entrarono in guerra contro Israele per ben cinque volte (nel 1948-1949, nel 1956, nel 1967, nel 1970 e nel 1973) e tutte le volte subirono una pesante sconfitta. In particolare, le disfatte del 1948-1949 e del 1967 lasciarono sconcertati i leader arabi. Il neonato Israele sembrava loro molto vulnerabile nonostante la guerra dei Sei giorni fosse stata l’unica débâcle più asimmetrica della storia militare. A ciò si aggiunga il fatto che la disfatta aerea del 1982, quando furono abbattuti 82 jet da guerra siriani e Israele non subì alcuna perdita,  fece sì che il confronto diretto con Israele perdesse di attrattiva. E così gli Stati arabi si fecero da parte. 

Opinione pubblica radicalizzata: la retorica incendiaria anti-israeliana prometteva più di quanto i capi degli Stati arabi potessero offrire. All’inizio, questi ultimi pensavano che suscitare e canalizzare l’ostilità attraverso la propaganda contro Israele avrebbe distratto le loro popolazioni dai problemi interni, e quindi li avrebbe aiutati. Gamal Abdel Nasser, che governò l’Egitto fra il 1954 e il 1970, padroneggiò quest’arte, ottenendo enormi consensi poiché attribuiva quasi ogni problema ai “sionisti”. Nel 1973, tuttavia, i leader arabi si resero conto che l’incessante antisionismo aveva creato una tigre che potevano a malapena cavalcare, pertanto, attenuarono la retorica e ridimensionarono le azioni. 

Pessimismo: una potente miscela di ideologie di Sinistra, tra cui l’anti-imperialismo, il socialismo arabo e il terzomondismo, aveva caratterizzato la politica araba grossomodo sino alla morte improvvisa di Nasser, nel 1970. Durante quel periodo, i governi avevano irradiato un ottimismo, per quanto rozzo e mal concepito, in merito alle proprie capacità. L’istrionismo che circondò la guerra dei Sei giorni, ad esempio, comprovò questa tenace e assurda sicurezza di sé, con Nasser che dichiarò: “La guerra sarà totale e l’obiettivo sarà quello di distruggere Israele. Siamo fiduciosi di poter vincere e ora siamo pronti per una guerra con Israele”. 

Quell’incauto ottimismo finì per diminuire, rimpiazzato da un amaro senso di realismo, sobrietà e limitazione. I ripetuti fallimenti militari contro Israele alimentarono questo cambiamento, così come un più ampio scontento. Quando gli arabofoni si guardarono intorno, si trovarono intrappolati nella repressione, nell’ingiustizia, nell’arretratezza e nella povertà, come dimostrato dal tanto discusso e decisamente negativo  Arab Human Development Report 2002. Lo sconforto soppiantò la speranza e l’introspezione caustica prese il posto dell’ambizione esuberante.  

Economia: le difficoltà che fecero seguito al boom petrolifero del 1970-1980 esacerbarono questo cambiamento. Gli ingenti ricavi petroliferi portarono a una straordinaria crescita nazionale nel corso di questi esaltanti e indimenticabili anni. I produttori di petrolio ovviamente ebbero un ruolo guida, ma anche i Paesi che fornivano servizi ai produttori, come l’Egitto e la Giordania, ne beneficiarono. Il Libano mantenne un livello economico di vita incredibilmente alto durante gran parte della sua guerra civile, dal 1975 al 1990. Il fiume di denaro portò non solo potere economico e diplomatico, ma conferì anche la sensazione che il trauma della modernizzazione fosse stato superato. Gli errori del passato sembravano spazzati via mentre un futuro radioso faceva capolino. Per alcuni gloriosi anni, sembrò che il petrolio avrebbe risolto i problemi degli arabi, e forse eliminato Israele, che si trovò impietosamente schiacciato (ad esempio, 25 Paesi dell’Africa subsahariana interruppero le relazioni con lo Stato ebraico dopo la guerra del 1973). 

Ma le sbronze raramente non hanno conseguenze negative: l’ebbrezza degli anni Settanta portò a un dopo sbornia negli anni Ottanta. Proprio come il boom benedisse di fatto i Paesi arabi, così il crollo afflisse quasi ognuno di loro, vanificando i precedenti guadagni. Le conseguenze della recessione petrolifera possono essere accuratamente rintracciate in molte aree, dai prezzi delle opere di arte islamica nelle case d’asta londinesi agli Stati africani che ristabilirono le relazioni con Israele (come fecero 42 dei 44 Paesi dell’Africa sub-saharianache non erano membri della Lega Araba). 

L’economia ha finito per avvicinare anche i Paesi arabi a Israele. Nel 2018, l’allora primo ministro Benjamin Netanyahuha evidenziatoun grande cambiamento” nel mondo arabo che ha sempre più numerose connessioni con Israele perché quest’ultimo ha bisogno della sua “tecnologia e dell’innovazione (…) di acqua, elettricità, cure mediche e alta tecnologia”. 

Anarchia: un tempo famosi per le dittature (si pensi a Hafez al-Assad e a Sddam Hussein), i governi arabi più di recente hanno affrontato la sfida di controllare i propri sudditi. Parti sostanziali di Libia, Egitto (penisola del Sinai), Libano, Yemen, Siria e Iraq sono diventate anarchiche. Ovviamente, i regimi che non governano pienamente il proprio territorio difficilmente possono svolgere un ruolo di forza oltre i propri confini. 

Islamismo: l’avanzata degli islamisti, emersi dopo la guerra del 1973 e che rapidamente manifestarono la più forte opposizione interna in quasi tutti i Paesi arabi, esacerbarono la debolezza degli Stati. Ideologicamente devoti, minacciarono direttamente i governi come mai avevano fatto i distanti e amichevoli israeliani. Dal massacro di Hama del 1982 in Siria a quello di Rabaa, al Cairo, del 2013, i governi arabi dettero priorità alla feroce repressione dei loro nemici islamisti. L’antisionismo si rivelò un lusso, qualcosa da promuovere quando era conveniente e da accantonare quando non lo era. 

Iran: non appena l’Ayatollah Khomeini prese il potere nel 1979, Teheran rappresentò una minaccia per tutti i Paesi arabi tranne che per il suo alleato siriano, tanto da rendere la causa palestinese un elemento secondario. La guerra fra Iran e Iraq del 1980-1988 distolse drasticamente l’attenzione da Israele. La sovversione poi rimpiazzò la guerra diretta, intensificando la minaccia iraniana al punto che i mullah controllavano le capitali di quattro Paesi arabi (Iraq, Siria, Libano e Yemen) e inviarono impunemente droni per colpire un impianto petrolifero saudita. Le alleanze anti-iraniane con Israele iniziarono in segreto subito dopo la Rivoluzione iraniana, ma sono state riconosciute pubblicamente soltanto con gli Accordi di Abramo. 

Altri si uniscono  

Mentre gli Stati arabi si ritiravano, altri si avventarono, a cominciare dai palestinesi. Essi sono un nemico più infiammato, seppur decisamente inferiore, di Israele, a causa della loro maggiore partecipazione personale al conflitto. I loro predecessori guidarono l’antisionismo prima del 1948: si rammenti il mufti di Gerusalemme, Haj Amin al-Husseini, e la Rivolta araba del 1936-1939. Tornarono alla ribalta dopo il 1967, nonostante quella data segnò la sconfitta di tre eserciti arabi in sei giorni. Quel fiasco incoraggiò i palestinesi a riaffermare il loro primato nella lotta antisionista, ma il riconoscimento che ottennero allora fu più simbolico che reale, poiché gli interessi statali rimasero preminenti. Il reale riconoscimento del primato palestinese risale al 1974, quando la Lega Araba (l’organizzazione degli Stati arabi) riconobbe l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) come “l’unico legittimo rappresentante del popolo palestinese” e le concesse la piena adesione alla lega. Gli Accordi di Oslo del 1993 confermarono tale centralità. 

Seppur siano privi delle risorse dei Paesi arabi e sprovvisti di un’economia o di un esercito rispettabile, i palestinesi hanno ottenuto più di quanto abbiano mai conseguito gli Stati. Le numerose guerre palestinesi (1982, 2006, 2008-2009, 2012, 2014, 2021) possono essere state militarmente sbilanciate a favore di Israele, ma sono servite allo scopo di far sembrare Israele cattivo. Tre eserciti arabi persero, combattendo in sei giorni contro Israele, ma nel 1982 l’OLP riuscì a opporre resistenza allo Stato ebraico per  88 giorni. I Paesi arabi cedettero a Israele la penisola del Sinai, Gaza, Gerusalemme Est, la Cisgiordania e le alture del Golan, mentre i palestinesi convinsero Israele a consegnare loro Gaza e parti della Cisgiordania. I governi e l’opinione pubblica occidentali hanno in larga misura evitato l’aggressione degli Stati arabi a Israele, ma hanno ampiamente approvato gli attacchi palestinesi contro di esso. Mentre i Paesi arabi si sentivano costretti ad osservare, per quanto con distacco, i trattati firmati con Israele, i palestinesi hanno distrutto pressoché impunemente gli Accordi di Oslo e ogni altro accordo. La loro tenacia non solo contrastava con gli inetti Stati arabi, ma il loro successo umiliava i fallimenti di quei Paesi. 

Gli islamisti hanno aperto un altro fronte. Sono emersi subito dopo il 1973 come una possente forza mondiale anti-israeliana. Il loro vetriolo ha avuto maggiore influenza nei Paesi a maggioranza musulmana, facendo pressioni sui governi (come in Algeria negli anni Novanta), prendendone il controllo (si pensi all’Egitto sotto Mohamed Morsi) oppure distruggendoli (come in Siria dal 2011). Hanno inoltre diffuso con efficacia il loro messaggio antisionista in Occidente, soprattutto quando hanno collaborato con la Sinistra, con un conseguente impatto su istituzioni educative, filantropiche, media, sistemi giuridici e politici. 

Mentre lo Scià dell’Iran manteneva tranquille relazioni con Israele, la Rivoluzione islamica del 1978-1979 trasformò il governo iraniano in un nemico fanatico, con l’antisionismo che fungeva da base dei principi e della propaganda del regime. Emblematico di questo nuovo orientamento è il fatto che il primo leader straniero a incontrare l’Ayatollah Khomeini fu il capo dell’OLP Yasser Arafat e un altro elemento significativo fu l’istituzione della Giornata di Gerusalemme, celebrata annualmente. Teheran ha organizzato e finanziato molte organizzazioni al fine di attaccare Israele, tra cui Hezbollah, Hamas e la Jihad islamica palestinese, mentre il suo programma nucleare rappresenta la più grande minaccia alla sicurezza dello Stato ebraico. A sua volta, Israele è diventato la coscienza del mondo e la potenziale arma contro l’arsenale nucleare iraniano. 

Le relazioni turco-israeliane, che un tempo costituivano un modello per la cooperazione fra ebrei e musulmani, raggiunsero il loro apice alla fine degli anni Novanta. La situazione cambiò nel 2022, con l’elezione del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), un’organizzazione islamista. Sebbene il riorientamento della Turchia non abbia avuto la velocità, la coerenza e la completezza di quello iraniano, si è dimostrato importante, con il Paese che è diventato occasionalmente una base per lanciare operazioni contro Israele, un sostenitore di Hamas e una significativa voce antisionista a livello internazionale. A volte, però, il presidente Recep Tayyip Erdoğan decide di aver bisogno di Israele e scalda i rapporti in maniera esplicitamente transazionale. Inoltre, il commercio e il turismo sono continuati tra alti e bassi. 

Prima del 1967, la Sinistra mondiale tenne un atteggiamento strano nei confronti di Israele, con l’Unione Sovietica che ebbe un ruolo cruciale nella nascita del Paese e i progressisti americani che lo vedevano più di buon occhio rispetto ai conservatori (si pensi a Truman contro Eisenhower). Il cambio di rotta nei confronti di Israele ebbe inizio quando la Sinistra scoprì i palestinesi e gli conferì il ruolo di vittima prediletta. L’ostilità della Sinistra verso Israele culminò nel 2001 con la Conferenza di Durban delle Nazioni Unite “contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza”, in cui molti elementi si unirono per criticare e ostracizzare Israele. Da allora, la Sinistra, dall’opinione pubblica europea ai sindacati marxisti in India, fino a politici come Jeremy Corbyn in Gran Bretagna e Gabriel Boric in Cile, è diventata sempre più ostile allo Stato ebraico. 

Pertanto, il conflitto arabo-israeliano si è frammentato in conflitto israelo-palestinese, israeloislamista e israelo-di Sinistra. 

Ripercussioni 

Questi sviluppi hanno due implicazioni principali per Israele. 

Innanzitutto, Israele ha trionfato sui Paesi arabi, che avevano popolazioni decisamente più numerose, maggiori risorse nonché economie e un peso diplomatico ben più grandi, un risultato straordinario questo, che merita molta più attenzione di quanto ne abbia ricevuta. Nel 1994, ad esempio, l’allora capo di Stato maggiore Ehud Barak sosteneva che “nel prossimo futuro, la principale minaccia allo Stato di Israele sarà ancora un attacco a tutto campo da parte degli eserciti convenzionali”. Quest’anno, lo stratega israeliano Efraim Inbar ha insistito sul fatto che “l’idea che i Paesi arabi e lo Stato ebraico coesisteranno pacificamente (…) ignora la realtà dei fatti”. 

Certo, nessuno Stato arabo firmò un documento di resa o ammise in altro modo la sconfitta, ma la sconfitta era la loro realtà. Dopo essere scesi in battaglia ad armi spianate nel 1948, pensando di eliminare facilmente il nascente Stato di Israele, i governanti del Cairo, di Amman e di Damasco e di altri Paesi si resero gradualmente conto nell’arco di un quarto di secolo che i disprezzati sionisti potevano sconfiggerli ogni volta, a prescindere da chi avesse lanciato l’attacco a sorpresa, indipendentemente dal terreno, dalla sofisticazione delle armi e dagli alleati delle grandi potenze. La disintegrazione dell’ostilità araba costituisce un cambiamento radicale nel conflitto arabo-israeliano. 

Detto questo, potrebbero essere necessari molti decenni per confermare una vittoria permanente. La Russia e i talebani sembravano sconfitti rispettivamente nel 1991 e nel 2001, ma la loro rinascita nel 2022 ha messo in dubbio questa sconfitta [1]. Una rinascita parallela sembra improbabile per i Paesi arabi, ma i Fratelli Musulmani potrebbero riprendere il controllo dell’Egitto, la monarchia giordana potrebbe cadere nelle mani dei radicali, la Siria potrebbe tornare ad essere unita e il Libano potrebbe diventare uno Stato unificato sotto il governo di Hezbollah. Possiamo affermare con certezza che almeno per ora i Paesi arabi sono stati sconfitti. 

Quella sconfitta solleva una domanda ovvia: offre un modello per la sconfitta palestinese? [2] In parte, sì. Se i Paesi a larga maggioranza musulmana possono essere costretti ad arrendersi, ciò confuta un’idea comune secondo cui ‘’Islam rende i musulmani immuni alla sconfitta. 

Ma in gran parte no. In primo luogo, Israele è una questione molto più remota per gli abitanti dei Paesi arabi di quanto non lo sia per i palestinesi. Gli egiziani sono meno interessati a fare di Gerusalemme la capitale della Palestina piuttosto che a installare sistemi fognari adeguati. Dal 2011, i siriani sono consumati dalla guerra civile. In secondo luogo, gli Stati scendono a compromessi più facilmente dei movimenti ideologici a causa degli interessi multipli e contrastanti dei governanti. In terzo luogo, essendo i governi delle strutture gerarchiche, e in particolare, i regimi autoritari degli arabi, un singolo individuo (come Anwar al-Sadat o Mohammad bin Salman) può da solo cambiare radicalmente politica. Nessuno dispone di tale potere nell’OLP o in seno a Hamas. Pertanto, i conflitti fra gli Stati e Israele sono più sanabili e più soggetti al cambiamento rispetto al conflitto palestinese. 

In quarto luogo, nonostante le accuse riguardo all’aggressione imperialista diretta contro di loro, i grandi Stati arabi non si sono mai dipinti in modo convincente come vittime del piccolo Israele, cosa che anche i palestinesi ancora più piccoli hanno fatto con grande abilità, guadagnandosi la simpatia  delle organizzazioni internazionali e del mondo accademico, che hanno concesso loro un’eccezionale tifoseria mondiale. Infine, i trattati di pace firmati molto tempo fa con l’Egitto e la Giordania e i recenti Accordi di Abramo hanno di per sé una grande importanza, ma non hanno quasi alcun ruolo nel ridurre la fervida ostilità palestinese verso Israele. Allo stesso modo, i fan dei palestinesi – gli islamisti, Teheran e Ankara, nonché la Sinistra mondiale – ignorano completamente gli accordi. Se contano soltanto le vittime palestinesi, allora la ritirata degli Stati arabi è irrilevante. 

Per questi motivi, gli Stati arabi si sono ritirati dopo appena venticinque anni di attacchi contro Israele, ma i palestinesi hanno continuato per cinquant’anni. 

Traduzione di Angelita La Spada 

https://www.danielpipes.org/21554/israel-partial-victory

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