Editoriali

Le (divertenti) avventure di Mark Twain in Palestina

L’8 giugno 1867, due anni dopo la fine della Guerra civile americana, il trentaduenne statunitense Mark Twain, al secolo Samuel Langhorne Clemens, scrittore e giornalista,si imbarcò a New York insieme ad altri passeggeri sulla Quaker City per quello che sarebbe stato uno dei primi viaggi organizzati della storia. Noto oggi principalmente per i suoi libri per ragazzi – su tutti ricordiamo Le avventure di Tom Sawyer (1876) e Le avventure di Huckleberry Finn (1884) –all’epoca Mark Twain ottenne grande notorietà per la pubblicazione di una serie di articoli, comparsi inizialmente sul giornale Alta California e poi riuniti in un volume dal titolo The Innocents Abroad (1869), dedicati ai resoconti delle sue esperienze di quel viaggio. Il libro divenne un vero e proprio best seller, con oltre 70.000 copie vendute nel solo primo anno. Le tappe del viaggio furono le isole Azzorre, Gibilterra, Francia, Italia, Grecia, Costantinopoli, Odessa, Smirne, Beirut, Damasco, per poi concludersi nella Palestina ottomana. Qui, in compagnia di soli altri sette uomini, un dragomanno (interprete), servitori e muli, intraprese la visita di una terra allora poco conosciuta all’estero, se non attraverso resoconti di viaggio dai toni entusiastici e romantici, quasi mitici: proiezioni delle aspettative e delle credenze religiose dei visitatori, piuttosto che descrizioni fedeli della realtà. Mark Twain, protestante e assai critico nei confronti delle “superstizioni” della religione cattolica, usa un tono assai diverso, decisamente fuori dagli schemi (dell’epoca, ma in un certo senso anche attuali): ironico, scanzonato e non incline al politicamente corretto. Descrive ciò che vede nel modo in cui lo vede. Senza falsi perbenismi o iperboli apologetiche. Da qui il successo della sua opera, ancora oggi godibilissima, sia per i contenuti che per la forma, decisamente divertente e moderna.

I resoconti di viaggio di Mark Twain sono, a maggior ragione, interessanti se confrontati con la narrativa degli antisionisti – i moderni antisemiti – secondo i quali 1) prima della nascita del sionismo (fine XIX secolo) il Medio Oriente era un’oasi di tolleranza e pacifica convivenza e 2) la Palestina ottomana era una fiorente comunità di arabi “palestinesi”. A tal proposito e per completezza di informazione si ricordano qui alcuni dati utili per comprendere meglio la realtà dell’epoca: la Palestina o terra di Israeledi fine Ottocento, appartenente all’Impero ottomano, era in larghissima parte disabitata (circa 500.000 abitanti); la maggioranza della popolazione diGerusalemme,da quando esistono statistiche affidabili, ovvero dalla metà del XIX secolo, è sempre stata composta da ebrei; nei territori ottomani lo status di dhimmi (che regolava il rapporto di sottomissione dei non musulmani con i musulmani) era stato abolito con le riforme del 1839 e del 1856, ma – come ricorda, con numerosi esempi al riguardo, Georges Bensoussan nel suo recente saggio Gli ebrei nel mondo arabo – tale prassi discriminante “era stata abolita per legge, ma non nella realtà”. Infine, un accenno alle persone incontrate da Mark Twain: trattasi di arabi, ebrei, turchi, cristiani, beduini. Non incontra palestinesi: questo termine, ad indicare una presunta “nazionalità”, sarà inventato un secolo più tardi.

Passiamo al testo, lasciando la parola a Mark Twain. NelVicino Medio Oriente della seconda metà del XIX secolo il fanatismo era tale da imporre alle donne l’uso del burqa, come avviene oggi nei paesi più oscurantisti e nella “cultura” degli islamisti?

Visitando Damasco, all’epoca città dell’Impero Ottomano e che contava circa 140.000 abitanti, Mark Twain scrive, con riferimento al livello di ortodossia islamica: «Questo è il purgatorio maomettano più fanatico che esista al di fuori dell’Arabia. Laddove da altre parti si vede il turbante verde di un solo Hajj (ossia il segno distintivo del fatto che quel signore ha compiuto il pellegrinaggio alla Mecca), credo che a Damasco se ne vedano dodici. I damasceni sono le canaglie più brutte e spaventose che abbiamo mai visto. Tutte le donne velate che abbiamo incontrato finora, o quasi, avevano gli occhi scoperti, ma a Damasco molte di loro nascondono completamente il volto sotto un velo nero e stretto che le fa sembrare delle mummie. E se mai abbiamo colto di sfuggita un occhio scoperto, è stato prontamente celato alla nostra vista impura di cristiani».

 

Si pensi ora al triste caso di cronaca recente della cristiana Asia Bibi, imprigionata in Pakistan per otto anni per aver “profanato” un recipiente destinato all’acqua per i musulmani. All’epoca quale era il livello di tolleranza nei confronti degli “infedeli”?

Mark Twain scrive: «Quanto odiano i cristiani a Damasco! […] Vedere questi pagani rifiutarsi di mangiare il cibo cucinato per noi, da un piatto in cui abbiamo mangiato noi, o di bere da un otre di pelle di capra che abbiamo reso impuro con le nostre labbra cristiane ferisce la mia vanità; bevono solo dopo aver filtrato l’acqua con uno straccio o una spugna appoggiati all’imboccatura!»

Si noti come la condizione di tutti gli “infedeli” fosse sempre soggetta, nei domini islamici, alla dhimma. Per i cristiani d’Oriente il XIX secolo fu ancor più drammatico di quello degli ebrei. Come ricorda Vittorio Robiati Bendaud nel suo recente studio intitolato La stella e la mezzaluna cominciava proprio «in quelle decadi a profilarsi all’orizzonte un cupo addensamento di nubi che precludeva al prossimo manifestarsi del “male assoluto”. Tale male imperversò, mietendo vittime e devastazioni, nella seconda decade del XX secolo, con il perpetrarsi del Metz Yeghern – il Genocidio Armeno – e del coevo Genocidio Assiro, ammontando complessivamente i martiri a oltre due milioni di persone».

Torniamo a Mark Twain. Com’era la Gerusalemme visitata (tanti i commenti al riguardo, specialmente sul Santo Sepolcro) dal viaggiatore americano nel 1867?

Mark Twain: «Gerusalemme! Abbarbicata sulle sue colline eterne, bianca, solida e piena di cupole, ammassata e cinta da alte mura grigie, la venerabile città brillava sotto il sole. Era così piccola! Bè, non è più grande di un paese americano di quattromila abitanti, né di una qualunque città siriana di trentamila: infatti Gerusalemme conta solo quattordicimila abitanti».

La “scoperta” che la Gerusalemme ottomana era poco più di un villaggio sperduto e dimenticato oggi non sorprende più. Giova riaffidarci per un attimo al sopracitato libro dello storico Georges Bensoussan per chiarirne i motivi: «Gli specialisti del mondo musulmano, che siano musulmani o no, sono d’accordo nell’ammettere che Gerusalemme non ha un carattere sacro nell’Islam e agli occhi dei musulmani è vista come luogo centrale solo quando è controllata dagli “infedeli”, ma, una volta ristabilita la sovranità musulmana, secondo loro, Gerusalemme ricade nell’oblio. I conquistatori arabi – sottolineano – non si affrettarono ad assalirla (essa cadde in fine nel 636), e una volta in loro possesso non ne fecero la loro capitale (che stabilirono a Damasco); e neppure una capitale regionale poiché a tale scopo costruirono Ramla, situata non lontano da Gerusalemme. Nessuna delle dinastie musulmane che regnarono sulla città derogò mai da questa regola, né gli Omeyyadi, né gli Abbasidi, né gli Ayyubidi, né i Mamelucchi, né gli Ottomani. Nell’immaginario arabo-musulmano appare centrale non appena è sottratta all’autorità dell’Islam, come nel XII secolo con le crociate e come è accaduto dal 1948».

In definitiva, quali furono, al termine del viaggio, le impressioni generali del“primo vero scrittore americano” (definizione di Mark Twain secondo William Faulkner) sulla Palestina dell’Impero Ottomano?

Mark Twain: «Credo che la Palestina sia la regina di tutte le terre dal paesaggio sconsolante».

Segue descrizione del paesaggio, con aggettivi che non lasciano molto spazio alle interpretazioni: colline brulle, colori scialbi, valli inguardabili, vegetazione dolente e avvilita: «Qui ogni forma è dura, ogni elemento è netto, non c’è prospettiva; la distanza non opera incanti. È una terra impossibile, tetra, disperata». Il giudizio non cambia nemmeno visitando città come Nazareth, Gerico, Betlemme, Gerusalemme.

«La Palestina sta con il saio addosso e il capo coperto di cenere. Su di lei aleggia l’incantesimo di una maledizione che ne ha fatto avvizzire i campi e ne ha imbrigliato le energie. […] Nazaret è desolata; presso quel guado del Giordano dal quale gli eserciti di Israele entrarono nella Terra Promessa con canti di gioia si incontra solo uno squallido accampamento di grotteschi beduini del deserto. Gerico, la maledetta, è oggi una rovina che si sgretola, piatta come il miracolo di Giosué la lasciò più di tremila anni fa; Betlemme e Betania, nella loro povertà e mortificazione, non hanno niente che possa ricordare al visitatore che una volta ebbero il grande onore di accogliere il Salvatore; il luogo santo in cui i pastori badarono ai greggi di notte, dove gli angeli cantarono “Pace in terra agli uomini di buona volontà”, non è occupato da alcune creatura vivente né benedetto da alcun elemento piacevole alla vista. La stessa Gerusalemme, così rinomata, la città con il nome più maestoso della storia, ha perso tutta la sua antica grandezza ed è diventata un villaggetto da poco; le ricchezze di Salomone non suscitano più l’ammirazione delle regine orientali in visita; il tempio meraviglioso che fu l’orgoglio e la gloria di Israele è scomparso e sul luogo in cui, nel giorno più memorabile degli annali del mondo, fu innalzata la Santa Croce, si leva oggi la mezzaluna ottomana. Il celebre mare di Galilea, nel quale le imbarcazioni romane gettarono l’ancora e i discepoli del Salvatore navigarono, fu abbandonato molto tempo fa da guerrieri e commercianti, e le sue rive sono oggi un muto deserto; Cafarnao è una rovina informe; a Magdala vivono solo mendicanti arabi; Betsaida e Corazin sono sparite dalla faccia della terra e i “luoghi deserti” che le circondano, dove un tempo migliaia di uomini ascoltarono la voce del Salvatore e mangiarono il pane del miracolo, dormono nel silenzio di una solitudine abitata solo da rapaci e volpi furtive».

Se per la bellezza, i terreni coltivati, il verde, le città, le infrastrutture e l’aumento della popolazione bisognerà attendere la nascita del sionismo e la successiva indipendenza dello Stato di Israele (non dimenticando che l’immigrazione araba in Palestina, così come dimostrato dai registri per l’immigrazione britannici, fu esclusivamente di natura economica e aumentò considerevolmente tra le due Guerre mondiali grazie – cioè successivamente – al popolamento e al lavoro degli ebrei), per Mark Twain quel viaggio fu dunque molto deludente: «La Palestina è desolata e brutta. E perché dovrebbe essere altrimenti? La condanna della divinità può forse rendere bella una terra? La Palestina non è più di questo mondo terreno. È sacra alla poesia e alla tradizione; è terra di sogno».

Palestina, terra di sogno. In un certo senso è ancora così. Visitare quella terra è però oggi ben più semplice e molto più gratificante. Occorre soltanto risvegliarsi dal torpore della dhimmitudine culturale, mettere da parte le illusioni e guardare, senza pregiudizi, alla realtà. Israele.

Tutte le citazioni di Mark Twain provengono da M. Twain, Viaggio in Palestina. Un americano di frontiera in Terra Santa, Edizioni Terra Santa, Milano 2017.

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