Editoriali

Le prospettive del piano di pace targato Trump

Ieri, alla Casa Bianca, in presenza di Benjamin Netanyahu, Donald Trump ha annunciato le linee guida del piano di pace per israeliani e palestinesi, proposto dalla sua amministrazione.

Va detto subito che il “Deal of the Century”, un prospetto di 180 pagine, presenta una essenziale e dirompente novità, quella di riconoscere la legalità degli insediamenti ebraici in Cisgiordania e il diritto di Israele di poterli annettere. Si tratta di una rottura netta con la posizione americana dal 1978 ad oggi, quando, sotto l’amministrazione Carter, gli Stati Uniti stabilirono che la presenza israeliana nei territori era da considerarsi illegale.

Di fatto, l’unico documento giuridicamente valido relativamente alla presenza ebraica in Cisgiordania (Giudea e Samaria) è il Mandato Britannico per la Palestina del 1922, il quale, all’Articolo 6, stabiliva il diritto degli ebrei di dimorare in tutti i territori a occidente del fiume Giordano. Questo documento, incorporato dall’ONU nell’Articolo 80 del proprio Statuto, concede pieno diritto di rivendicazione territoriale a Israele.

Non una delle risoluzioni dell’ONU successive al 1967 le quali definiscono illegale la presenza ebraica in Cisgiordania, e dunque illegali gli insediamenti possiede un valore vincolante per il diritto internazionale. Si tratta di documenti politicamente orientati e votati a maggioranza da Stati arabi e musulmani.

L’avere stabilito, da parte dell’Amministrazione Trump, la legittimità di annessione da parte di Israele degli insediamenti è un ulteriore passo avanti verso la verità e la realtà dei fatti, così come era già avvenuto con la dichiarazione di Gerusalemme capitale dello Stato ebraico, e con la legittimazione della sovranità israeliana sopra le alture del Golan.

Il resto del documento recepisce il paradigma dei due Stati desumibile dagli Accordi di Oslo del 1993-1995 e dunque del venire in essere di uno Stato palestinese demilitarizzato. Chiede la fine dell’incitamento al terrorismo e la normalizzazione di Gaza, prospetta incentivi economici di ampia portata e rinnova la fiducia nei confronti dell’Autorità Palestinese.

La parte del documento che apre una prospettiva per i palestinesi è di fatto la mano realistica non tenendo conto della perseveranza con la quale dal 1994, anno del suo venire ad essere ad oggi, l’Autorità Palestinese abbia sistematicamente rigettato ogni negoziazione con Israele, alzando sempre la posta a ogni proposta e rendendo impossibile qualsivoglia accordo.

E’ assai irrealistico pensare che Hamas rinunci al proprio dominio sulla Striscia di Gaza e che l’apparato cleptocratico dell’Autorità Palestinese e di Hamas sia disposto a concedere a Israele alcunché. O forse, al contrario, tutto ciò è ben presente all’amministrazione Trump, e includendo nel documento questi prerequisiti perché si possa giungere alla pace, rende chiaro e tangibile che il fallimento probabile di questo nuovo piano sarà unicamente da imputare ai palestinesi, come di fatto è sempre stato.

C’è tuttavia una rilevante differenza rispetto al passato. Abu Mazen e l’Autorità Palestinese sono sostanzialmente isolati dal mondo arabo, a maggior ragione oggi, in un quadro mediorientale mutato, in cui la priorità per gli Stati sunniti non è più quella di fare la guerra a Israele (armata, diplomatica), ma di contrastare le mire egemoniche iraniane.

Il rifiuto aprioristico del nuovo piano di pace americano da parte di Abu Mazen manifesta una reazione scontata ma allo stesso tempo certifica il suo ulteriore isolamento. Il fatto che il suo rigetto del piano americano possa essere prevedibilmente sostenuto oltre che dalla Turchia, dall’Iran, lo mette con le spalle al muro.

In questo senso, i “giorni della rabbia” che ha annunciato l’anziano leader, sono solo il segno di una estrema e frustrata debolezza.

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