Editoriali

L’Hybris iraniana e il prezzo da pagare

L’uccisione a Baghdad da parte degli Stati Uniti di Qasem Soleimani, leader delle Forze Quds della Guardia Rivoluzionaria Iraniana, segna una svolta decisiva in Medioriente e apre nuovi imprevedibili scenari.

Soleimani era considerato il principale pianificatore del consolidamento geopolitico dell’Iran in Iraq e Siria. Si deve a lui il rafforzamento militare di Hezbollah e la fredda determinazione con cui ha spinto spavaldamente l’espansionismo iraniano nella regione. Austero, frugale, vicinissimo alla Guida Suprema Khamenei, il Generale Soleimani da eminenza grigia e promotore del terrore si era progressivamente ritagliato un posto al sole diventando una figura di primissimo piano a livello pubblico, un eroe nazionale e simbolo della resistenza rivoluzionaria al “satanismo” occidentale.

In ottobre, in una intervista, aveva raccontato di come Israele avesse cercato di assassinarlo in Libano nel 2006. Pochi giorni dopo, il capo del Mossad, Yossi Cohen, dichiarò che Solemani sapeva bene che il suo assassinio non era impossibile e che l’infrastruttura da lui creata rappresentava un serio pericolo per la sicurezza dello Stato ebraico.

Ma non è stato Israele a eliminarlo. A sorpresa si è trattato di una azione voluta da Donald Trump e avvenuta a breve giro dopo la risposta americana nei confronti della branca irachena di Hezbollah a seguito di un attacco contro una base americana in Iraq.

L’uccisione di Solemani insieme a quella di Abu Mhadi Al Muhandis, responsabile dell’attacco alla base militare americana inverte drammaticamente la rotta tenuta fino ad oggi dall’amministrazione Trump nei confronti dell’Iran.

Non ci fu, infatti, risposta il giugno scorso quando l’Iran abbatte un drone americano. Il previsto strike su postazioni militari iraniane, caldeggiato dall’allora Consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton, venne abortito all’ultimo minuto. Non ci fu altresì risposta all’attacco ai pozzi petroliferi sauditi avvenuto a settembre, la cui matrice gli USA hanno ricondotto a Teheran.

La riluttanza dell’amministrazione Trump a reagire militarmente si iscriveva in una generale prospettiva di disimpegno dal Medioriente e nella più volte annunciata disponibilità da parte del presidente USA di sedersi al tavolo con Teheran per un nuovo negoziato.

L’uccisione di Soleimani sembra ribaltare tutto ciò, poiché, di fatto, è un colpo preciso e di grande rilevanza concreta e simbolica al cuore del regime iraniano, di cui il generale era lo stratega di punta.

La risposta iraniana non si farà attendere ed è inevitabile. Il regime sta attraversando una delle fasi più critiche da quando si è insediato nel 1979. Le sanzioni economiche imposte da Trump hanno inciso fortemente sul paese, le manifestazioni di protesta, soffocate nel sangue, si sono moltiplicate. L’uccisione di Soleimani costringe il regime a reagire, per non perdere la faccia di fronte al “Grande Satana”. Israele, il “Piccolo Satana”, potrebbe farne le spese.

L’Iran non è in grado di contrastare militarmente né Israele né gli Stati Uniti, ma si trova ora a un bivio. Dopo la baldanzosa esercitazione navale con Cina e Russia nell’Oceano Indiano e nel Golfo Persico, atta a mostrare agli USA una saldatura tra potenze avversarie, ora si trova messo di fronte a una realtà che, fino a poco fa, aveva sottovalutato. Gli USA hanno risposto alle provocazioni e alla pianificazione egemonica regionale di Soleimani nel modo più diretto e perentorio possibile, eliminando dalla scena il suo artefice.

L’hybris iraniana, al momento, ha pagato un prezzo alto.

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