Israele e Medio Oriente

L’oggetto nascosto del discorso

Per dodici settimane, senza interruzione i mezzi di informazione israeliani e internazionali hanno dato conto delle proteste in Israele a seguito dell’annunciata riforma della giustizia del governo Netanyahu. I riflettori e le analisi si sono concentrati su di esse e sul loro oggetto, la riforma, appunto. Si è così inteso, nella più grossolana sintesi possibile, che il governo frettolosamente bollato come estremista per la presenza in coalizione di due partiti ultranzionalisti facenti capo rispettivamente a Bezalel Smotrich e Itmar Ben Gvir, (nonostante la riforma sia stata presentata da due esponenti del Likud) aveva come mira la neutralizzazione della Corte Suprema.

L’opposizione di sinistra, la quale ha svolto egregiamente il proprio lavoro coadiuvata dal vasto e ininterrotto tam tam dei media, ha presentato la riforma come un atto liberticida e un attentato alla democrazia. Così, “spontaneamente” sono scesi in piazza migliaia di cittadini, i quali, altrettanto “spontaneamente”, ovvero indotti solo ed unicamente dalla loro libera e sorgiva determinazione, hanno iniziato ad opporsi contro l’incombere della dittatura prossima ventura.

Dallo scenario accuratamente apparecchiato è scomparso, tuttavia, nei giorni concitati, un altro oggetto, il quale doveva restare celato ai più, poichè svelarlo, avrebbe significato portare in piena luce la ragione della riforma, il suo perchè. L’oggetto è presto detto quale sia, e qui, in questo spazio, ne abbiamo dato più volte conto a partire dal 2019, quando ancora la riforma era, per dirla con Aristotele, in potenza e non in atto. Si tratta del potere della Corte Suprema, potere che è andato a costruirsi piano piano a partire dalla metà degli anni ’80 per conclamarsi poi negli anni ’90, e che da allora ha continuato a implementarsi. Perchè, attenzione, l’attuale riforma voluta dal governo in carica, non è una riforma dell’appartato giudiziario israeliano così come esso è dal 1948 ad oggi, ma è, la riforma di una riforma, quella appunto determinatosi negli anni citati, e che soprattutto per volontà di un uomo, Aharon Barak, “il grande mandarino della legge”, nella definizione di Dror Ben Yamini, ha progressivamente svuotato il Parlamento della sua potestà legislativa, rendendolo di fatto un organismo sotto vigilanza perpetua da parte della Corte.

L’essenza della riforma che il governo vorrebbe attuare è quindi fondamentalmente controriformistica, anche se non si tratta di riportare tutto alla situazione precedente, ma di riequilibrare il potere esondante della Corte.

Oggi ci si scandalizza, ci si straccia indignati le vesti, perchè con la riforma del governo il ramo giudiziario perderebbe la sua attuale supremazia e verrebbe di fatto ridotto a un esercizio di ragionevole tutela delle legittimità legale delle leggi, funzione che di fatto svolgeva già prima che Aharon Barak trasformasse la figura del giudice da garante della legge a garante della giustizia, intesa con la G maiuscola. Ovvero la giustizia come Barak e i suoi discepoli intendono che essa sia, salvaguardia dei diritti umani e delle minoranze secondo la specifica concezione da essi reputata giusta e ragionevole.

Eppure basterebbe sapere che prima della riforma della giustizia, non quella che vorrebbe il governo Netanyahu, ma quella che volle Aharon Barak, la Corte poteva bocciare le leggi della Knesset ma la Knesset aveva la possibilità di fare ricorso improntando di nuovo la legislazione bocciata confermandola. A quel punto i giudici non potevano fare altro che prenderne coscienza. Nessuno scendeva in piazza a protestare, non si ricordano settimane e settimane di proteste nè interventi di governi stranieri sul rischio dittatura che correva lo Stato ebraico.

Nel 1996, dopo che, quattro anni prima, la Knesset aveva approvato con appena 32 deputati su 120, due delle Leggi Base di Israele, quella sulla Libertà e la Dignità Umana e quella sulla Libertà di Occupazione, a cui, con un colpo di mano clamoroso la Corte Suprema aveva poi conferito legittimità costituzionale espropriando il Parlamento dalla consapevolezza che le leggi che aveva votato in minoranza l’avrebbero ottenuta, l’allora presidente dell’Ordine forense, Dror Hoter Yoshai rilasciò un’intervista che suscitò scalpore.

Hoter Yoshai, membro del Comitato per la selezione dei giudici, costituito da nove membri, tre giudici, due esponenti dell’avvocatura, due esponenti del governo e uno dell’opposizione e della maggioranza, (consegnando sempre de facto ai cinque membri della sfera giuridica il diritto di veto sulla nomina dei giudici) osò dire:

“Una corte non deve produrre la giustizia, deve agire la legge. La cosa più periciolosa che possa occorrere a una corte è di avere un giudice libero di fare quello che vuole e che gli sembra appropriato, in accordo con la sua visione di ciò che è giusto e appropriato. Una corte si deve occupare solo della legge. La legge è determinata dalla legislatura. E’ la legislatura che stabilisce le norme legali e se il popolo non le approva ha il potere di rimpiazzarla, ma non quello di rimpiazzare i giudici che sono eletti a vita. Ne consegue che i giudici non possono stabilire leggi morali”

Fu ampia la richiesta di dimissioni nei confronti di Hoter Yoshai, a cui si aggiunse quella di sottoporlo a un provvedimento disciplinare. Non bastò. Un’organizzazione di salute pubblica fece richiesta presso il procuratore distrettuale di Tel Aviv di accellerare un’indagine fiscale nei suoi riguardi che si trovava in stallo, cosa che accadde puntualmente pochi mesi dopo.

Tutto ciò accadeva ventisette anni fa. Criticare la Corte Suprema anche allora poteva costare caro. Figuriamoci oggi, quando non si tratta più di criticarla ma della decisione di riformarla, di riportare le sue prerogative a dimensioni normali come quelle che essa possiede in altri paesi democratici dove non accorpa in sè il potere della Corte Costituzionale, di quella di Cassazione e del Consiglio di Stato, e dove soprattutto non esiste una figura con le caratteristiche assunte in Israele dal Procuratore Generale dello Stato, mano longa della Corte, suo supervisore e vigilante dotato del potere di cassare ogni legge prodotta dal Parlamento se essa non corrisponde, secondo il suo giudizio, all’elasticissimo “criterio di ragionevolezza”.

Dunque tutti in piazza con bandiere e scudi di cartone con su scritto “a presidio della democrazia”, senza sapere che la democrazia, o meglio il suo equilibrato bilanciamento tra poteri, non è più in corso in Israele da trent’anni a questa parte. Ma funziona così da quando la propaganda si sostituisce ai fatti e il consenso si crea con parole d’ordine facili e di immediata presa, soprattutto quando essa può disporre di risorse di propagazione pressochè illimitate. Tutti in piazzaa protestare contro l’oggetto posto sotto i riflettori, mentre l’altro, quello più spinoso, è stato sospinto opportunamente dentro un cono d’ombra.

 

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