Israele e Stati Uniti

La barra diritta e le pressioni americane

Le pressioni su Israele per un cessate il fuoco, e dunque per fornire a Hamas un vantaggio oggettivo sul terreno, aumenteranno nei prossimi giorni. Si tratta di un canovaccio consolidato.

Ieri, sulle pagine di Shalom, Ugo Volli ha ricordato come furono interrotte prima della loro conclusione le sei precedenti campagne precedenti di Israele contro Hamas.

Eli Cohen, il Ministro degli esteri israeliano lo ha dichiarato esplicitamente, nel giro di due o tre settimane la pressione diplomatica su Israele è destinata ad intensificarsi.

Benjamin Netanyahu e Yoav Gallant hanno più volte dichiarato che lo scopo dell’operazione Spade di Ferro, intrapresa a Gaza a seguito dell’eccidio perpetrato da Hamas in Israele il 7 ottobre scorso che ha provocato la morte di 1200 cittadini israeliani e il rapimento di 240 connazionali, è quello di sradicare Hamas dalla Striscia, dove, dopo un regolamento di conti sanguinario con Fatah, l’organizzazione terrorista ha instaurato il suo regime nel 2007.

È essenziale per la sicurezza di Israele che questo obbiettivo venga raggiunto, nonostante le pressioni internazionali, in primis, quella degli Stati Uniti.

Non è un mistero per nessuno che l’Amministrazione Biden stia cercando di forzare Israele a cedere alla propria volontà, la quale risponde necessariamente alle esigenze regionali americane e a una particolare attenzione per gli umori elettorali in vista delle prossime elezioni presidenziali del 2024.

La Casa Bianca vorrebbe che a Gaza, nel dopoguerra, torni a governare l’Autorità Palestinese. Per questo scopo cerca l’appoggio, per ora inesistente, degli Stati arabi, il quale è anche esso subordinato alla fine delle operazioni israeliane nella Striscia indipendentemente dal raggiungimento israeliano del obbiettivo prefissato.

In questo senso, le ultime dichiarazioni di Netanyahu relative alla sua indisponibilità a far sì che l’Autorità Palestinese torni, dopo sedici anni a Gaza, sono state vissute con estremo fastidio a Washington.

Non è altresì un secondo mistero che, nonostante la plateale solidarietà espressa da Joe Biden nei confronti di Israele subito dopo i fatti del 7 ottobre e seguita da una sua visita lampo nel paese, egli non abbia affatto gradito la rielezione di Netanyahu e la formazione del suo attuale gabinetto, inviso a Washington per la presenza al suo interno di partiti considerati oltranzisti.

In questo senso, la caratterizzazione in nero di Netanyahu, e la demonizzazione del suo esecutivo sono state una costante incessante dentro e fuori Israele, e il cui culmine parossistico si è avuto con le grandi manifestazioni di piazza contro la riforma giudiziaria che hanno attraversato Israele ininterrottamente.

Un terzo e ultimo non mistero è che per Washington l’ideale sarebbe la sostituzione di Netanyahu alla guida del governo e la formazione di un nuovo gabinetto più malleabile ai suoi desiderata. Benny Gantz ha bollato come “folle” l’idea della sostituzione di Netanyahu nel corso della guerra.

Sembra dunque che, al momento, e con sul terreno un forte vantaggio israeliano rispetto ad una offensiva di Hamas non dirompente, il gabinetto di guerra guidato da Netanyahu sia unito nel perseguire fino in fondo l’obbiettivo dichiarato.

L’auspicio è, che la barra sia tenuta diritta fino al suo conseguimento.

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