Editoriali

Quando il leone rinuncia alla sua forza

Il cessate il fuoco deciso tra Israele e Hamas dopo due giorni in cui dalla Striscia sono stati lanciati sul sud di Israele 460 razzi e che come conseguenza politica immediata ha determinato le dimissioni di Avigdor Lieberman, Ministro della Difesa, rappresenta un ulteriore capitolo della strategia a corto termine che imbriglia Israele da anni e la rende sostanzialmente ostaggio del gruppo terrorista islamico.

I sostenitori di Netanyahu vedono nella decisione di fare arrivare combustibile alla Striscia per alimentare la centrale elettrica e consentire l’arrivo di 15 milioni di dollari da parte del Qatar per pagare gli stipendi ai miliziani, una prova di lungimiranza politica, poiché affermano, Gaza non si può invadere, costerebbe troppe vite, l’esecrazione internazionale, un incremento di antisemitismo, ecc. Dunque meglio concedere ai terroristi di sopravvivere, in attesa della prossima tornata, quando invece di 460, i razzi potrebbero essere molti di più.

Bisognerebbe, insomma, arrendersi all’esistente e dichiarare che per Gaza non c’è alcuna soluzione, soprattutto bisognerebbe avere l’onestà di dirlo agli abitanti di Siderot e Ashkelon e dei kibbutz ramificati intorno alla Striscia che recarsi in pochi secondi nei bunker quando suonano le sirene antimissili dovrà essere accettato come una costante paesaggistica, perché appunto, per Gaza non c’è alcuna soluzione, e dopotutto è morto solo un israeliano, un altro è rimasto gravemente ferito, e la maggioranza dei razzi lanciati sono stati intercettati. Il problema è l’Iran, la minaccia nucleare, è lì che bisogna guardare, come se difendersi dalla minaccia iraniana escludesse una altrettanto risoluta difesa nei confronti della jihad islamica alla porta di casa.

Questa posizione è stata ben riassunta dal Ministro dell’Educazione Naftali Bennett con queste parole: “Il più grande pericolo per Israele è che abbiamo cominciato a pensare che non ci sia alcuna soluzione ai terroristi e al terrorismo, nessuna soluzione ai  razzi, che non ci sia niente che possa essere fatto, che sia impossibile vincere”.

Mascherare per lungimiranza politica la rassegnazione all’esistente è la posizione ormai assunta dal governo Netanyahu privo di una strategia ad ampio respiro relativa al problema del terrorismo jihadista di Hamas, perché è appunto troppo rischioso e oneroso modificare l’assetto delle cose. Ricorda Martin Sherman, uno dei più lucidi e acuti analisti politici israeliani che:

“Da quando Israele ha abbandonato unilateralmente la striscia di Gaza quasi un decennio e mezzo fa, i suoi nemici sono riusciti a migliorare la portata e le dimensioni del loro arsenale al di là del pensabile. Alla fine di ogni round di combattimenti, il periodo di calma interbellica non veniva utilizzato per sviluppare la loro società e far progredire la loro economia, ma piuttosto per migliorare le loro capacità militari in vista del prossimo round di combattimenti. Se nel 2005, alla vigilia del “Disimpegno”, alcuni individui lungimiranti avessero predetto che la realtà sarebbe stata quella che è oggi, i loro avvertimenti sarebbero stati sdegnosamente liquidati come allarmismo infondato”.

Sherman, del tutto inascoltato, aveva predetto già negli anni ’90 che un disimpegno israeliano nella Striscia avrebbe avuto come conseguenza l’affermarsi del gruppo islamico più radicale e non la presa del potere dei moderati. Ma bisogna saperla guardare la realtà in modo spassionato e crudo e solo pochi ci riescono. “L’inferno”, scrive Thomas Hobbes nel Leviatano, “E’ la realtà vista troppo tardi”.

A Sherman si aggiunge Caroline Glick, che in un articolo sul Jerusalem Post, evidenzia che:

“Israele non ha mai subito un attacco di razzi da Gaza tanto intenso quanto quello che Hamas e la Jihad islamica hanno lanciato lunedì e martedì. Eppure, piuttosto che rispondere con una forza uguale – o meglio ancora – molto più grande e insegnare a Hamas e alla Jihad islamica una lezione che ricorderanno a lungo, al gabinetto di sicurezza sono bastati duecentocinque attacchi aerei mirati, e poi ha accettato il consiglio dell’IDF e ha optato per il cessate il fuoco. Così facendo, hanno lasciato gli abitanti del sud di Israele ostaggi virtuali di Hamas e della Jihad islamica che hanno mantenuto la capacità di attaccarli a loro piacimento”.

Non è oggetto di dibattito che nell’arco degli ultimi dieci anni, Hamas, invece di indebolirsi si sia invece rafforzato, lo dimostrano i fatti. Diceva Sun Tzu, duemilacinquecento anni fa, “Il leone usa tutta la sua forza anche per uccidere un coniglio”, ma il leone, in questo caso, ha preferito da molto tempo abdicare alla forza sotto la pressione, da una parte del ricatto della comunità internazionale sempre pronta a dare addosso a Israele quando si difende, e dall’altra, di quella interna che viene dall’esercito stesso e dall’apparato di sicurezza, ormai ostaggi di un cedevolezza e di un tatticismo di corto respiro. Lo sottolinea sempre Caroline Glick:

“Dall’operazione “Piombo fuso” nel 2008-2009, gli avvocati militari sono stati accorpati alle unità combattenti fino al livello dei battaglioni. Questi avvocati stanno presumibilmente vietando l’azione che si renderebbe necessaria, sostenendo che azioni strategicamente significative e operativamente vitali come uccidere i comandanti di Hamas e bombare le unità di lancio di razzi costituirebbero crimini di guerra”.

D’altronde si è già visto l’anno scorso, quando dopo l’assassinio di due poliziotti israeliani di guardia a uno degli ingressi del Monte del Tempio, da parte di terroristi arabi-israeliani, vennero collocate temporaneamente dei metal detectors all’ingresso del comprensorio, per essere rimossi quando montò la pressione araba. Anche allora arrivò dall’IDF il consiglio che fosse più saggio rimuoverli. Ed è questa “saggezza” che di volta in volta rafforza i nemici di Israele, nella persuasione che la forza, nella forma del ricatto, quando sono loro a esercitarla, produca risultati, come puntualmente avviene.

 

 

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