Israele e Medio Oriente

Quando le grida e i sussurri dei politici arabi si contraddicono

Nel 1933, un esasperato ambasciatore britannico in Iraq redarguì Re Faisal. “Cosa devo riferire al mio governo?” chiedeva in tono retorico, 

[Devo dire] che gli uomini pubblici dell’Iraq, uomini che hanno occupato le più alte cariche dello Stato, hanno pronunciato dei discorsi nel corso di occasioni solenni in cui hanno espresso delle opinioni che sapevano essere false e insensate? Devo riferire che il Parlamento iracheno è stato una farsa, un luogo dove tempo e denaro sono stati sprecati da un manipolo di uomini che, pur atteggiandosi a statisti, non intendevano dire quello dicevano né dicevano ciò che pensavano? [1] 

Nello stesso spirito, un ambasciatore americano in Iraq, negli anni Cinquanta scriveva così di Nuri as-Said, un vecchio premier iracheno: “Le dichiarazioni pubbliche di Nuri su Israele sono decisamente differenti da ciò che diceva in privato. Le sue dichiarazioni pubbliche, come quelle di tutti i nazionalisti panarabi, erano feroci e categoriche. In privato, parlava di Israele con toni pacati, in modo ragionevole e con moderazione” [2]. 

Nel 1993, a proposito dell’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein, lo scrittore Kanan Makiya osservava che “molte delle migliori menti e dei migliori intelletti del mondo arabo hanno aderito al progetto del dittatore iracheno durante la crisi del Golfo, anche se le stesse persone non si sarebbero sognate di vivere sotto il suo governo. In privato, disprezzano Saddam Hussein e tutto ciò che rappresenta, ma in pubblico lo sostengono”. 

Questi esempi riguardanti l’Iraq evidenziano una caratteristica della vita pubblica araba: i politici lanciano messaggi emozionali nei discorsi rivolti alle loro masse e parlano sottovoce nelle diplomatiche dichiarazioni confidenziali riservate agli interlocutori occidentali. 

Ciò induce a porsi due interrogativi: una persona esterna dovrebbe prestare attenzione alle grida o ai sussurri? Qual è la migliore guida alla politica? (Ciò differisce dal chiedere informazioni sulle reali convinzioni personali perché il modo in cui un politico agisce è più importante di cosa crede nel profondo.) Una rivisitazione storica offre una risposta piuttosto semplice, e forse sorprendente. 

Dichiarazioni su Israele  

Il conflitto arabo-israeliano è fonte delle più note incongruenze fra dichiarazioni pubbliche e private, con i politici che gridano in pubblico un focoso antisionismo e bisbigliano messaggi più sommessi in privato. Gamal Abdel Nasser, l’uomo forte dell’Egitto dal 1954 al 1970, incarnava questo contrasto. 

Pubblicamente, Nasser portò avanti inflessibilmente un programma antisionista, facendo di Israele la questione centrale della politica panaraba e cavalcando la sua opposizione per diventare il leader arabo più potente della sua epoca. Ma, secondo Miles Copeland, un operativo della CIA che interagì con Nasser, in realtà, il presidente egiziano considerava la questione palestinese “irrilevante” [3]. 

Lo stesso schema si applicava a questioni specifiche. Rivolgendosi al mondo, Nasser negava l’esistenza stessa dello Stato ebraico e rifiutava anche di accettare qualsiasi compromesso con esso, mentre in privato parlava ai diplomatici occidentali della sua disponibilità a negoziare con Israele. In pubblico, guidò la lotta nella Lega Araba contro un piano americano per la creazione di un’Autorità della Valle del Giordano al fine di allocare le risorse idriche del fiume Giordano: in privato, Nasser accettò questo piano [4]. Dopo la guerra del 1967, egli rifiutò pubblicamente i negoziati con Israele, insistendo a dire che “ciò che è stato preso con la forza sarà riottenuto con la forza”, pur segnalando segretamente all’amministrazione americana la disponibilità a firmare un accordo di non-belligeranza con Israele, “con tutte le sue conseguenze” [5]. 

In tutti questi casi, le dichiarazioni pubbliche hanno definito le reali politiche. Nasser ammise perfino tacitamente che le grida offrono una guida più accurata dei sussurri, dicendo a John F. Kennedy che “alcuni politici arabi rilasciavano pubblicamente delle dichiarazioni dure riguardo la Palestina, e poi contattavano il governo americano per mitigare la durezza delle loro parole asserendo che quelle dichiarazioni erano a uso e consumo degli arabi” [6]. In questo modo Gamal Abdel Nasser delineava con esattezza la sua stessa condotta. 

L’uomo forte della Siria, Hafez al-Assad, ha agito in modo simile. Richard Nixon scrisse di lui: “Ero convinto che Assad avrebbe continuato a giocare in pubblico le più dure delle linee dure, ma che in privato avrebbe seguito il proverbio arabo che mi ha detto nel corso di uno dei nostri incontri: ‘Quando un cieco può vedere con un occhio è meglio che non riuscire a vedere con entrambi’” [7]. (L’adagio sembra implicare che Assad stesse schermando la popolazione siriana dalla linea più morbida da lui espressa a Nixon, perché, a causa del loro indottrinamento, i siriani non avrebbero potuto sopportare la verità.) Assad ha rifiutato pubblicamente qualsiasi restrizione alle sue opzioni militari nei confronti di Israele, ma Harold H. Saunders, un importante diplomatico americano,  ha dichiarato che “la posizione assunta dai siriani in privato è che la smilitarizzazione del confine [siro-israeliano] può essere negoziata”. 

Un ambasciatore americano in Arabia Saudita negli anni Settanta ha raccontato che re Faisal non smetteva di parlare del complotto sionista, e proseguiva a farlo per ore, poi, il sovrano licenziava chi prendeva appunti e si metteva concretamente al lavoro, quando diventava palesemente più ragionevole. 

Nel 1973, Henry Kissinger osservò quanto segue: “Tutti i leader con cui ho parlato fino ad oggi hanno fatto chiaramente sapere che è molto più facile per loro allentare di fatto le pressioni [su Israele] piuttosto che mitigare la politica pubblica araba” [8]. Jimmy Carter aggrottò le sopracciglia quando nel 1979 rivelò (in un momento in cui i politici arabi esercitavano forte pressioni per raggiungere questo obiettivo): Non ho mai incontrato un leader arabo che in privato abbia espresso il desiderio di plaudire la nascita di uno Stato palestinese indipendente” [9]. Tre anni dopo, Carter spiegò nelle sue memorie che 

Quasi tutti gli arabi potrebbero rendersi conto che una nazione indipendente [palestinese] nel cuore del Medio Oriente potrebbe essere un serio punto di frizione e un obiettivo per l’influenza integralista. (…) Tuttavia, a causa della forte influenza politica dell’OLP nei consigli internazionali e della minaccia di attacchi terroristici da parte di alcune delle sue forze, certi arabi hanno avuto l’audacia di abbandonare la loro posizione originaria in una dichiarazione pubblica [10]. 

L’analista Barry Rubin racconta che diverse persone gli hanno detto quanto fosse gentile con loro il leader palestinese Faisal Husseini “in privato, e come fossero convinti del suo reale desiderio di pace. In pubblico, però, Husseini ha seguito una linea molto più dura, approvando specifici attacchi terroristici e, in un discorso pronunciato a Beirut poco prima della sua morte, fissando come obiettivo dei palestinesi la distruzione di Israele” [11].  

Un dispaccio confidenziale del governo degli Stati Uniti, datato 2 ottobre 2009, riguardante la Tunisia (diffuso da WikiLeaks) mostra un’altra discrepanza esistente tra pubblico e privato, rendendo ancora una volta il messaggio pubblico più rivelatore: 

La Tunisia è stata chiaramente diffidente nei confronti dell’opinione pubblica, infiammata dalle immagini di violenza dei conflitti arabo-israeliani, in particolare, i combattimenti in Libano nell’estate del 2006 e a Gaza all’inizio del 2009. I leader tunisini si lamentano occasionalmente con noi del fatto che la copertura mediatica di questi conflitti ha irritato l’opinione pubblica tunisina, limitando la gamma percepita di opzioni politiche del governo della Tunisia. Paradossalmente, i media tunisini, strettamente controllati dallo Stato, alimentano attivamente le fiamme del malcontento popolare riguardo al conflitto. La stampa scandalistica tunisina, in particolare, sebbene servilmente ossequiosa nella sua copertura mediatica del presidente Ben Ali, ha mano libera per pubblicare come fatti oltraggiosi le teorie del complotto che coinvolgono Israele e gli ebrei e per una copertura in genere squilibrata degli eventi nel teatro israelo-palestinese. 

Il Cairo gridò a gran voce alle teorie del complotto anti-israeliane e anti-americane quando il ministro egiziano della Cultura, Farouk Hosny, non fu eletto a capo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), sempre nell’ottobre 2009. Il  cablogramma confidenziale del governo americano (pubblicato da Wikileaks) su questo argomento indicava una reazione privata molto più smorzata (definendo l’episodio “irritante”). 

Il giornalista Matti Friedmanrilevò (nel 2014) che Hamas praticava inganni a quattr’occhi: 

Alcuni portavoce di Hamas hanno cominciato a confidare ai giornalisti occidentali, compresi alcuni che conosco personalmente, che il gruppo è in realtà un’organizzazione segretamente pragmatica e dotata di una retorica bellicosa, e i giornalisti, propensi a credere alla confessione, e talvolta riluttanti ad attribuire alla gente del posto l’intelligenza necessaria per ingannarli, l’hanno preso come uno scoop invece che come una manipolazione. 

Gli israeliani hanno notato discrepanze simili. Prima del 1948, scrive Laura Zittrain Eisenberg, gli operativi dell’Agenzia Ebraica “scoprirono che molti dei loro contatti approvavano in privato la partizione [della Palestina], pochi erano disposti a farlo pubblicamente” [12]. Secondo Moshe Dayan, Anwar al-Sadat “affermava spesso” in privato la sua opposizione a uno Stato palestinese, in contrasto con la sua posizione pubblica [13]. 

Anche i palestinesi rilevano l’incoerenza. George Habash, il leader palestinese, osservò nel 1991 che mentre il governo algerino e quello yemenita vogliono davvero uno Stato palestinese, “la Giordania non lo vuole. La Siria non ha deciso”. Ha concluso dicendo: “Si potrebbe dire che forse i Paesi arabi effettivi non ne vogliono uno” [14].  

Quali che fossero le conversazioni private di Nuri al-Said, la sua condotta nei confronti di Israele è rimasta costantemente ostile. Nasser dichiarò per ben tre volte guerra a Israele. Indipendentemente dai sentimenti personali, i leader arabi rendono omaggio alla questione palestinese. Se le opinioni espresse nei tête-à-tête con i funzionari occidentali fossero state efficaci, il conflitto arabo-israeliano sarebbe stato risolto molto tempo fa. 

Sedotti dai sussurri, e non

È ovvio che si apprezzino maggiormente le informazioni riservate rispetto a quelle pubbliche. Come afferma Miguel De Unamuno, “alcune persone crederanno a qualsiasi cosa se viene loro sussurrata”. Inoltre, gli addetti ai lavori attribuiscono ovviamente valore alle conversazioni individuali esclusive e riservate con i leader. In questo spirito, gli occidentali spesso privilegiano le parole dette in privato rispetto a quelle pronunciate pubblicamente. 

Alla fine del 2007, Mahmoud Abbas rifiutò pubblicamente di riconoscere Israele come Stato ebraico, una questione importante all’epoca, limitandosi a dire: “Da una prospettiva storica, ci sono due Stati: Israele e la  Palestina. In Israele, ci sono ebrei e altri che vivono lì. Questo è ciò che siamo disposti a riconoscere, nient’altro”. Nonostante questa chiara riluttanza ad accettare la natura ebraica di Israele, il primo ministro israeliano Ehud Olmertsi è ostinato a travisare le parole dette in privato da Abbas per rimpiazzare quelle dette in pubblico. 

È mia impressione che [Abbas] voglia la pace con Israele e accetti Israele come esso stesso si definisce. Se gli si chiede di dire che considera Israele uno Stato ebraico, si rifiuterà di farlo. Ma se mi chiedete se in cuor suo accetta Israele, come esso stesso si definisce, penso che lo farebbe. Non è irrilevante. Forse non basta, ma non è una cosa da poco. 

Nel 2010, WikiLeaks pubblicò dei cablogrammi diplomatici secondo i quali diversi leader arabi avevano esortato il governo americano ad attaccare gli impianti nucleari iraniani. In modo più fiorito, re Abdullah dell’Arabia Saudita voleva che Washington “tagliasse la testa del serpente”. Gli analisti americani, in genere, concordano sul fatto che queste frasi dette in privato camuffavano le reali politiche dei sauditi e di altri politici, nonostante l’assenza di commenti pubblici comparabili. 

Eric R. Mandel “informa regolarmente i membri del Senato americano, della Camera dei Rappresentanti e i loro consiglieri di politica estera”, il che lo rende un insider. In un articolo del 2019, titolato “Israeliani e arabi dicono una cosa in pubblico per poi dirne un’altra dietro le porte chiuse. I politici e gli opinionisti devono capire la differenza”, Mandel sostiene che le conversazioni private sono più utili dei discorsi pubblici. La sua prova è dettata dal fatto che è giunto alla conclusione che “nonostante alcune promesse vuote fatte in pubblico riguardo alla causa palestinese, il mondo arabo sunnita sa che il conflitto israelo-palestinese è tutt’al più una ‘questione secondaria’”. 

Ma altri analisti mettono in guardia dalla seduzione delle parole dette a fior di labbra, concludendo, come ha fatto il sottoscritto, che le dichiarazioni pubbliche contano di più di quelle private. Il giornalista Lee Smith osserva, con riferimento alla frase “tagliare la testa del serpente”, che i politici arabi possono dire agli americani ciò che loro vogliono sentire dire: “Sappiamo cosa dicono gli arabi ai diplomatici e ai giornalisti in merito all’Iran”, scrive Smith, “ma non sappiamo cosa pensano davvero del loro vicino persiano”. I loro appelli potrebbero far parte di un processo diplomatico, che implica di rispecchiare le paure e i desideri degli alleati come propri. Pertanto, quando i sauditi affermano che gli iraniani sono i loro nemici mortali, gli americani tendono ad accettare acriticamente questa comunanza di interessi: Smith sostiene, tuttavia, che “le parole che i sauditi pronunciano ai diplomatici americani non hanno lo scopo di fornirci una finestra trasparente sul pensiero reale, ma di manipolarci per servire gli interessi della Casa di Saud”. Pensiamo che stiano dicendo la verità perché ci piace quello che dicono, ma non è un saggio presupposto. 

Oppure, come osserva Dalia Dassa Kaye della Rand Corporation, “ciò che i leader arabi dicono ai funzionari americani e ciò che fanno potrebbe non sempre coincidere”. Nel suo classico studio del  1972, Arab Attitudes to Israel,Yehoshafat Harkabi rilevava: 

Se negli Stati Uniti, una dichiarazione confidenziale è indice di reali intenzioni, spesso sembra essere il contrario nei Paesi arabi, dove le dichiarazioni pubbliche sono più importanti delle parole sussurrate all’orecchio dei giornalisti stranieri. Anche se le masse non possono imporre la loro volontà ai loro leader attraverso processi democratici, l’importanza delle dichiarazioni pubbliche sta nel fatto che creano impegni e alimentano aspettative che la leadership metterà in pratica ciò che predica [15]. 

Indagare più a fondo  

Prima di esaminare la psicologia alla base di questo fenomeno, è necessario segnalare alcune eccezioni. 

Innanzitutto, quando i politici arabi parlano in privato non agli occidentali, ma al proprio pubblico, tendono a dire la verità. Tre giorni dopo che nel 1967 Nasser accettò la Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che prevedeva una “pace giusta e duratura che consenta a ciascuno Stato della regione di vivere in condizioni di sicurezza”, lo statista egiziano ordinò ai vertici dell’esercito di non “prestare alcuna attenzione a qualsiasi cosa io possa dire in pubblico su una soluzione pacifica” [16]. Allo stesso modo, Arafat firmò pubblicamente gli Accordi di Oslo del 1993 che riconoscono Israele, ma espresse le sue reali intenzioni in modo semi-confidenziale quando invitò i musulmani in una moschea del Sudafrica “a venire a combattere e ad iniziare il jihad per liberare Gerusalemme”, un invito indiretto a contribuire a porre fine all’esistenza di Israele. 

In secondo luogo, ciò che viene detto in arabo conta più di quello che viene detto in inglese. Uno studio dei discorsi di Arafat, pronunciato nei due anni successivi a Oslo, ha rilevato che egli teneva in mano “solo un ramoscello d’ulivo per l’Occidente e un Kalashnikov per i suoi fratelli arabi”, con il Kalashnikov come simbolo operativo. 

In terzo luogo, i politici non parlano sempre in modo diverso in pubblico e in privato. Nasser a volte disse agli americani in privato le stesse cose affermate in pubblico agli egiziani, ossia che il governo statunitense “stava cercando di mantenere l’Egitto debole e che ciò era da ricondursi all’influenza ebraica” negli Stati Uniti [17]. 

Per quanto riguarda il motivo di questa discrepanza tra le grida e i sussurri, Abdelraouf Al-Rawabdeh, primo ministro giordano nel 1999-2000, l’ha spiegato in maniera incisiva in una dichiarazione del 2013 che riporta la citazione completa: 

Il predicatore che parla dal pulpito, il filosofo, il politico, il professore universitario, l’insegnante di scuola, sono tutti in sintonia con la coscienza della nazione, (…) e sono fedeli a ciò in cui credono, ma non sono responsabili della sua attuazione. Il predicatore sale sul pulpito e dichiara: “Dobbiamo affrontare l’America, la punta di diamante dell’eresia”. Bene. Cosa vuole che facciamo al riguardo? Non lo dice. Poi arriva il politico, il cui compito è comprendere l’equilibrio di potere a livello locale, regionale e internazionale, e parla solo di ciò che può realizzare. 

Una volta, mentre ero in lizza per l’incarico, qualcuno ha cercato di darmi del filo da torcere. Si è avvicinato e mi ha chiesto: “Cosa ne pensi dell’America?” Ho ribattuto, con un’altra domanda: “Me lo chiedi come politico o come candidato?” 

Ha risposto che me lo chiedeva in veste di candidato, pertanto ho detto: “L’America è uno Stato nemico, che fornisce armi a Israele, uccide il nostro popolo palestinese, controlla i nostri Paesi arabi, espropria il nostro petrolio e distrugge la nostra economia”. Così era contento, ma poi ha affermato: “E come politico?” Ho risposto: “L’America è nostra amica. Ci sta accanto e ci aiuta”. 

E il politico ha aggiunto: “Non la consideri una contraddizione morale?” “No”, ho risposto. “Io dico che l’America è un nemico per farti piacere e dico che è un’amica per darti da mangiare. Dimmi quale dei due preferisci”. [ride] 

Il candore di Rawabdeh spiega sinteticamente la contrapposizione tra campagna politica e imperativo diplomatico, con la prima che plasma la politica e la seconda che distoglie l’attenzione da essa. In altre parole, i politici mentono sia in pubblico sia in privato, pertanto, entrambi non forniscono una guida infallibile, ma la campagna politica prevede le azioni meglio dell’imperativo diplomatico. Le informazioni riservate tendono a fuorviare e i sussurri tendono a distrarre. 

Quali suggerimenti emergono da questo quadro generale? Per comprendere la politica, occorre fare affidamento sulle dichiarazioni pubbliche, e non sui sussurri. Per capire la politica mediorientale, è meglio leggere giornali e comunicati stampa o ascoltare la radio e la televisione piuttosto che leggere cablogrammi diplomatici riservati o parlare in privato con i politici. La retorica è operativa, e non lo è ciò che passa sommessamente dalla bocca all’orecchio. Quello che conta è ciò che le masse ascoltano con le loro orecchie. Queste ultime imparano la politica, mentre gli occidentali di alto rango vengono sedotti.

Questa regola pratica spiega, tra l’altro, perché  gli osservatori lontani a volte vedono ciò che sfugge ai diplomatici e ai giornalisti in loco. 

Traduzione di Angelita La Spada

https://www.danielpipes.org/21561/when-arab-politicians-shouts-and-whispers

1] Foreign Office 371/16903, E 1724/105/93, 22 March 1933. Citato in Mohammad A. Tarbush, The Role of the Military in Politics: A Case Study of Iraq to 1941 (London: Kegan Paul International, 1982), pp. 53-54. 

[2]Waldemar J. Gallman, Iraq under General Nuri: My Recollections of Nuri al-Said, 1954-1958 (Baltimore: Johns Hopkins Press, 1964), p. 167. 

[3] Miles Copeland, The Game of Nations: The Amorality of Power Politics (New York: Simon and Schuster, 1969), pp. 69-70, 113. 

[4] Michael B. Oren, The Origins of the Second Arab-Israeli War: Egypt, Israel and the Great Powers, 1952-56 (London: Frank Cass, 1992), chap. 5. 

[6] Foreign Broadcast Information Service, Daily Report, Near East and South Asia, Sep. 21, 1962, no. 185. 

[7] Richard Nixon, Memoirs (New York: Grosset and Dunlap, 1978), p. 1013. 

[8] Henry Kissinger, Years of Upheaval (Boston: Little, Brown, 1982), p. 657. 

[9]The New York Times, Aug. 31, 1979. 

[10] Jimmy Carter, Keeping Faith: Memoirs of a President (New York: Bantam Books, 1982), p. 302. 

[11]The Jerusalem Post, 12 June 2001. 

[12]My Enemy’s Enemy: Lebanon in the Early Zionist Imagination, 1900-1948 (Detroit: Wayne State University Press, 1994), p. 23. 

[13] Moshe Dayan, Breakthrough: A Personal Account of the Egypt-Israel Peace Negotiations (New York: Alfred A. Knopf, 1981), p. 162. 

[14]The Nation, Dec. 30, 1991. 

[15] Jerusalem: Israel Universities Press, 1972, p. 390. 

[16]Citato in Mohamed Heikal, The Road to Ramadan (New York: Quadrangle/The New York Times Book Co., 1975), p. 54. 

[17]Telegramma di George V. Allen,  dell’1° ottobre 1955, Foreign Relations of the United States, 1955-1957, vol. 14, Arab-Israeli Dispute 1955 (Washington, D.C.: U.S. Government Printing Office, 1989), p. 539. 

Addenda del 21 dicembre 2022: (1) Quest’articolo si basa su una versione molto più breve pubblicata nel 1993 e titolata “I duplici discorsi dei leader arabi”. (2)  Per quanto concerne l’argomento correlato del dire la verità in arabo e le menzogne nelle lingue occidentali, si veda il mio articolo del 1995, scritto a quattro mani con Alexander T. Stillman, “Yasser bifronte. 

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