Editoriali

Siria: L’arretramento americano

Uscire di scena, perché è finalmente arrivato il momento che siano altri ad occuparsi di queste “guerre senza fine”, in luoghi esotici che una parte consistente degli elettori americani non sa neanche dove siano. E’ questo il verbo non interventista dell’amministrazione Trump, che in Siria abbandona i curdi al loro destino dopo l’apporto fondamentale dato per sconfiggere l’ISIS nel nordest del paese, dichiarando stentoreo che la missione è stata completata. Ora è tempo di tornare a casa e chi si è visto si è visto. Combattano gli altri per un paese che non ci riguarda, potrebbe intervenire anche Napoleone a dare una mano.

Al di là delle buffonerie trumpiane, il bilancio del ritiro americano dalla Siria, dopo che Trump ha dato il via libera all’offensiva turca (anche se è stato successivamente negato, contro ogni tangibile evidenza, che lo abbia fatto), lascia oltre al disastro umanitario sul terreno, la peggiore immagine possibile per gli Stati Uniti in Medio Oriente. Un paese inaffidabile e debole nonostante la propria straripante potenza militare.

Fino a quando alla Casa Bianca c’erano uomini d’apparato di grande esperienza e competenza come il Generale James Mattis o John Bolton, la possibilità di frenare l’impulsività di Trump era nei fatti, soprattutto relativamente alla Siria. Ma sia Mattis che Bolton sono stati archiviati come incidenti di percorso. L’uno e l’altro, soprattutto il secondo, avevano semplicemente differito l’ingloriosa uscita di scena, cercando di fare capire a Trump che una Siria consegnata all’Iran, alla Russia e ora, anche in parte alla Turchia (il terzetto di Astana), in cui l’ISIS non è affatto debellato, non garantiva al meglio gli interessi americani, i quali non potranno mai essere chiusi esclusivamente all’interno del perimetro della nazione. Lasciare proliferare dall’altra parte dell’Atlantico i nemici degli Stati Uniti nell’illusione di potersi preservare dal loro odio ha già portato conseguenze straordinariamente gravi come avrebbe dovuto insegnare l’11 settembre.

L’America di Trump per quanto riguarda i pericoli concreti dell’estremismo islamico appare sempre più come un cane che abbaia ma morde poco. E’ vero che le sanzioni contro l’Iran sono severe e stanno mettendo a dura prova il paese ma non hanno minimamente spezzato la schiena al regime, il quale ha alzato la testa spavaldo  con atti di pirateria nel Golfo Persico, l’abbattimento di un drone americano e di seguito l’attacco in Arabia Saudita ai pozzi petroliferi. Risposta degli Stati Uniti, nulla. Un raid aereo abortito e una chiamata al tavolo dei negoziati a cui Teheran ha risposto picche.

La forza americana appare in cielo e in terra come una maestosa scenografia degna di Cecil B. De Mille, ma all’atto pratico rincula, si dà col contagocce, teme le conseguenze. Per Trump non c’è nessuno che non possa essere convinto a fare un buon accordo, dai talebani in Afghanistan, a Kim jong Ung, a Khamenei.

L’idea che i criminali, i terroristi, i dittatori, possano essere ammansiti e alla fine neutralizzati senza l’uso della forza, è la perenne illusione dei progressisti e ora anche degli isolazionisti i quali nutrono un’altra e forse peggiore illusione; fuori dai pantani che non ci riguardano non morirà più alcun soldato americano. Il problema è che i pantani dove cresce e prospera la pianta dell’Islam jihadista riguardano enormemente gli Stati Uniti.

Nel 1991, il figlio di Khomeini disse perentorio ciò che i fatti hanno confermato, “La lotta contro Israele è anche una guerra contro gli Stati Uniti”. E l’11 settembre lo mise chiaramente in luce, gli Stati Uniti vennero colpiti al loro cuore perchè considerati parte di un’unica costellazione anti-islamica con il suo apice nello Stato ebraico.

L’abbandono della Siria è il segnale chiaro che dagli Stati Uniti il Medio Oriente può essere finalmente guardato da lontano delegando agli altri a gestirne la complessità e lasciando Israele consapevole che dopo i regali concessi da Trump a Netanyahu, non pochi e sicuramente di peso, dovrà trovare altre sponde per tutelare la propria sicurezza. La perigliosa sponda russa è quella favorita.

Gli Usa che si congedano dalla loro influenza globale e ritirano gli stendardi imperiali da posti lontani (a quando Iraq e Afghanistan?), sono il segno di una resa che si annuncia con tracotante spavalderia nazionalista senza tenere conto di una cosa, che la malapianta jihadista non permetterà fantomatici rintanamenti a casa. La sicurezza USA non termina nel Texas o nel Wisconsin, si estende ben al di fuori, anche in luoghi sconosciuti e impronunciabili per gli agricoltori americani.

Come ha scritto Noah Rothman su Commentary a proposito della politica estera trumpiana.

“Questa è la condotta mortificante di una presidenza americana impegnata nella fantasticheria che gli interessi degli Stati Uniti siano meglio serviti appaltando la loro gestione a capitali straniere, e non è un corso di eventi inedito. L’umiliazione americana è in atto e ha una portata veramente globale”.

In realtà non c’è nessuno che possa prendere in appalto gli interessi americani se non gli americani stessi. Meno che mai possono farlo dei delegati che vedono il potere che una volta fu esteso sopra una buona parte del pianeta arretrare sempre più da avamposti considerati troppo rischiosi per il consenso elettorale.

 

 

 

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