Islam e Islamismo

Un prospettiva diversa sulla crisi del Monte del Tempio | di Gershon HaCohen

EXECUTIVE SUMMARY: I leader moderati avvertono che il conflitto israelo-palestinese rischia di trasformarsi da conflitto nazionale in una guerra di religione. I leader di destra ritengono che sia stato un conflitto religioso sin dall’inizio. Entrambi gli approcci sono stati applicati alla crisi del Monte del Tempio, e ambedue sono influenzati da una percezione assolutista dell’interpretazione dell’imperativo religioso.

Da anni, i leader moderati avvertono che il conflitto israelo-palestinese rischia di trasformarsi da conflitto nazionale in una guerra di religione. A loro volta, i leader di destra hanno risposto che è stato un conflitto religioso fin dalle sue origini. E così anche sulla questione del Monte del Tempio: “La sinistra preferisce considerare il conflitto come una questione territoriale, poiché i suoi strumenti politici, importati principalmente da altri luoghi, possono soltanto affrontare l’aspetto territoriale del conflitto” (Ofri Ilani, Ha’aretz, July 2017). Al contrario, il settimanale religioso Shvi’i esprime la posizione della destra religiosa: “Questa è una guerra di religione. Solo in Israele i sanguinari atti islamisti arabi vengono attribuiti a motivi nazionalistici. È semplicemente più accettabile, visto che un conflitto politico in fieri può avere una soluzione, mentre una lotta religiosa è assoluta”. (Amnon Shomron, July 2017).

Qui si suggerisce una prospettiva leggermente diversa. Tra le due posizioni, una che cerca di evitare che il conflitto diventi religioso e un’altra che parla di conflitto religioso sin dall’inizio, esiste una comune base concettuale: entrambe le posizioni hanno una comprensione analoga dell’essenza e della logica della fede religiosa, che è interpretata da una prospettiva moderna. Tutti e due gli approcci condividono una concezione assolutista dell’interpretazione dell’imperativo religioso, come se l’obbedienza al comando divino quasi inevitabilmente conducesse ad estremi opposti. Da qui la visione condivisa dei due approcci: più il conflitto rischia di diventare religioso, minori sono le probabilità che sia gestito in modo pragmatico.

A questo punto, però, è la condotta politica iraniana che presenta una logica diversa. Nel 2014, prima del Ramadan, al culmine dei negoziati sul nucleare tra l’Iran e l’Occidente, il presidente Rohani, partecipando a un vertice religioso, spiegò la posizione dell’Iran dicendo: “La flessibilità eroica talvolta è superiore al jihad”.

In una moderna prospettiva, gli esperti hanno spiegato che Rohani in quell’occasione dimostrò di essere uno statista pragmatico. In quelle circostanze, pensando razionalmente, egli mise da parte il diktat del jihad esprimendo considerazioni fondate sulla saggezza pratica. Tuttavia, da un punto di vista religioso, si possono interpretare le sue parole in modo opposto. Sono state le difficoltà pratiche, create anche dal volere divino, a sancire quella flessibilità pragmatica. Il comandamento religioso non è stato accantonato da Rohani, ma piuttosto è stato interpretato alla luce dei complessi ostacoli che intralciavano il suo cammino. Il suo stesso riferimento al contesto e alle circostanze, dal suo punto di vista religioso, è la suprema espressione della sua fiducia nella volontà divina.

Uri Goldberg, nel suo libro Thinking Shi’a, ha sottolineato la differenza esistente tra il pensiero tradizione sciita (contraddistinto da una consapevole assenza di una rivelazione esplicita della volontà divina) e un pensiero religioso moderno, che costituisce il nuovo fondamentalismo religioso. Oltre alla comune percezione che vede il fondamentalismo religioso come un fenomeno moderno, una controreazione alla modernità stessa, Goldberg ha sottolineato un altro aspetto. Analogamente all’uomo moderno che crede che con il potere della sapienza si può arrivare a comprendere l’universo, così anche i fondamentalisti religiosi moderni vogliono dichiararsi capaci di conseguire la conoscenza della volontà divina e interpretarla nella vita pratica.

Questo fondamentalismo religioso può di fatto ostacolare qualsiasi flessibilità pragmatica. Il pensiero radicale islamico è stato formulato sia nella dottrina sciita sia in quella sunnita – ad esempio, da Khomeini in Iran o da Abdullah Azzam, sotto la sua guida spirituale nella lotta contro l’Afghanistan. In entrambe è contemplato lo spinoso dovere dei credenti di chiarire i loro compiti, proprio attingendo alle difficoltà della realtà, per adempiere i loro doveri religiosi.

La motivazione religiosa non è quindi da considerarsi necessariamente assoluta. È aperta a un’interpretazione dinamica ed è proprio in questa intersezione che può essere ravvisato un punto di incontro per un equilibrio mitigante.

Ma questa prospettiva del conflitto assoggetta alla logica religiosa scivola verso un confronto dialettico tra due punti di vista: o l’uso della religione viene dipinto come una manipolazione per mobilitare le masse e sfruttare il potere religioso per scopi politici in una lotta nazionale; oppure la motivazione religiosa è considerata autentica, ma prefigurata come attinente alla sfera emotiva, il che apparentemente la rende irrazionale. Entrambi gli approcci preferirebbero mantenere una condotta in ambito politico il più possibile scevra da motivazioni politiche. Non è la religiosità a dover prescindere dalla razionalità, ma il modernismo.

Traduzione di Angelita La Spada, qui l’originale in lingua inglese pubblicato sul Besacenter.org

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