Editoriali

Un solo stato per sopravvivere

L’incontro fra Trump e Netanyahu ha lasciato aperte molte opzioni, inclusa quella dell’annessione unilaterale della Cisgiordania da parte di Israele, caldeggiata da una parte della destra israeliana ed ovviamente avversata da tutti i benpensanti liberali. Vale la pena, per avere una visione un po’ più chiara del problema, di riportare quanto ha scritto un giornalista americano protestante e liberale, Hunter Stuart.
Egli professava il pluralismo, la tolleranza, la diversità, i diritti dei gay, l’accesso all’aborto, il controllo delle armi, e, come parte del suo credo, l’ingiustizia dei comportamenti di Israele nei confronti dei palestinesi. In luglio, da Gerusalemme, egli aveva scritto un articolo che “l’occupazione è un atto di colonialismo che provoca sofferenza, frustrazione e disperazione“.

Stuart aveva deciso, nell’estate del 2015, di trascorrere un anno e mezzo in Israele e Palestina come freelance, allo scopo di verificare sul campo le proprie opinioni sul conflitto.
Nelle prime settimane trascorse a Gerusalemme il giornalista ha costantemente discusso e sovente litigato con i suoi primi amici israeliani, ed aveva cercato di convincerli che solamente una piccola minoranza dei palestinesi era favorevole agli attentati terroristici, ma una ricerca demoscopica di PEW Research del 2013, fatta contattando migliaia di musulmani nel mondo, aveva scosso le sue opinioni: alla domanda se ritenessero che gli attentati suicidi contro civili fossero l’arma migliore per “difendere l’Islam dai suoi nemici”, solamente una minoranza dei musulmani, dal Libano all’Egitto, dal Pakistan alla Malaysia, aveva supportato questo strumento – con la sola eccezione dei palestinesi, tra i quali era favorevole il 62% degli interpellati.

Quando, nell’ottobre 2015, cominciò a Gerusalemme quella che fu definita l’intifada dei coltelli, con quasi quotidiani accoltellamenti di civili per strada ed automobili che investivano le persone in attesa del tram o dell’autobus, Stuart pensò che la responsabilità ricadesse sugli israeliani, che occupavano i territori palestinesi, e che finita questa occupazione sarebbero cessati anche gli atti di terrorismo. Questa tesi, molto diffusa all’epoca fra gli occidentali, gli sembrava assolutamente corretta, e lo scrisse in qualche articolo. Ma quando andò nella parte araba di Gerusalemme, nel quartiere di Silwan, per constatare quali fossero i sentimenti della popolazione, fu immediatamente circondato da ragazzi sui 13 anni che gli urlavano in faccia “Ebreo!Ebreo!” con un odio incontenibile. Lui rispose in arabo di non essere ebreo e questi ragazzi si calmarono; più tardi un palestinese che viveva in quel quartiere gli disse che se fosse stato ebreo non ne sarebbe uscito vivo.

Quando su un autobus urbano fu assassinato l’amico di un suo amico, un insegnante di inglese in una scuola mista israelo-palestinese, Stuart andò ad intervistare i genitori di uno degli assassini ventenni, e scoprì che erano stati pagati con 20.000 shekel (circa 5.000 Euro) per assaltare l’autobus. Ancora un anno dopo a Gerusalemme est si potevano vedere ovunque i loro ritratti su poster che li esaltavano come martiri. Un altro momento cruciale della conversione di Stuart dalle opinioni radicali che professava fu quando il segretario dell’ONU Ban Ki-Moon, nel gennaio del 2016, disse che “fa parte della natura umana reagire all’occupazione”. Stuart divenne consapevole del doppio standard che a priori condannava Israele, ad esempio per la politica di uccidere sul posto i terroristi che assalivano i civili, mentre in tutto il mondo – Stati Uniti inclusi – le polizie facevano altrettanto senza che Amnesty International o chiunque altro se ne scandalizzasse.Questi liberali volevano in tal modo “trovarsi dalla parte giusta”, ma non si rendevano conto del fatto che le loro idee non coincidevano con la realtà.

Viaggiando nei territori palestinesi, da Ramallah a Hebron a Nablus ed a Gaza, Stuart si fece molti amici fra i palestinesi che incontrava, ma constatò anche che le loro idee sulla fine del conflitto fossero sempre radicali: anche i più colti e gentili e benestanti fra loro non si accontenterebbero di una soluzione dei due stati, ma vogliono riavere il 100% della Palestina e parlano non di convivenza ma di espulsione degli ebrei. Queste persone, in maggioranza, sono anche convinte che il terrorismo sia frutto di cospirazioni occidentali: un’amica giornalista libanese, ventisettenne, era ad esempio convinta che gli attacchi terroristici di Parigi fossero in realtà opera del Mossad.
Io conosco un mucchio di israeliani ebrei pronti a condividere la terra con i musulmani palestinesi, ma per qualche ragione è quasi impossibile trovare un palestinese che la pensi allo stesso modo…essi sembrano dimenticare che gli ebrei vivono in Israele da migliaia di anni, insieme a musulmani, cristiani, drusi, atei, agnostici e così via, spesso in armonia“. Stuart si è convinto, prima di fare ritorno negli Stati Uniti, che quella di creare uno stato palestinese non sia poi una gran bella idea. Se avessero il loro stato in Cisgiordania, argomenta Stuart, chi ci dice che non eleggerebbero Hamas, che vuole annientare Israele? E’ quel che è successo nel 2006 Gaza con elezioni democratiche. Avere Hamas che controlla la Cisgiordania e metà Gerusalemme sarebbe un suicidio per Israele.
Questo è quanto ha scritto Stuart qualche giorno fa sul Jerusalem Post. Non è detto che si debba essere d’accordo con lui, in fondo la politica è anche l’arte di rendere possibile quel che pare impossibile, ma è indubbiamente interessante conoscere il punto di vista di una persona aperta al mondo, che ha cambiato la propria opinione addirittura sovvertendola, e ne fa oggetto di discussione.

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