Stati Uniti e Medio Oriente

USA e Israele, una relazione ambivalente

In questi giorni di fine estate si è assistito all’ennesimo “attacco” da parte dell’amministrazione Biden verso lo Stato di Israele. Questa volta il pretesto è stato la pubblicazione dell’indagine condotta dall’IDF sulla morte della giornalista palestinese – con passaporto USA – Shireen Abu Akleh avvenuta a maggio di quest’anno durante uno scontro a fuoco tra l’esercito e dei terroristi palestinesi. Nel rapporto si dichiarava che la reporter palestinese “molto probabilmente” era stata uccisa da un proiettile sparato da un soldato israeliano anche se un’indagine completa non si è potuta fare per l’assoluta mancanza di collaborazione da parte dell’Autorità Palestinese. Non si vuole qui entrare nel merito dell’indagine ma concentraci suo risvolto politico. Prima di farlo, proveremo a illustrare, con una carrellata, le relazioni ambivalenti degli USA nei confronti di Israele dalla nascita dello Stato ebraico ai giorni nostri.

Va subito premesso che l’ambivalenza americana nei confronti di Israele si è manifestata, da una parte con il tradizionale appoggio e la reale amicizia dei presidenti americani (con qualche eccezione) e dall’altra con una tradizionale inimicizia e talvolta una vera e propria ostilità da parte del Dipartimento di Stato (con qualche eccezione). A questo bisogna aggiungere che il Congresso, che è il vero rappresentante del popolo americano, è sempre stato vicino e sensibile alle sorti di Israele così come lo stesso popolo americano che, dalla fondazione dello Stato ebraico ad oggi, si è sempre espresso favorevolmente nei  suoi confronti come si evince dai numerosissimi sondaggi condotti nel corso degli anni da parte di diversi mass media e centri di ricerca. Oggi l’unico cambiamento in questo supporto è rappresentato dalle élite più “progressiste” ormai completamente preda di deliri terzomondisti e animate da un antisionismo conseguente.

La disarticolata politica americana verso Israele, a dire il vero, è iniziata ancora prima della sua nascita, si era  infatti già manifestata in occasione della Dichiarazione Balfour e del Mandato per la Palestina del 1922 creato per attuare la politica del Jewish National Home ovvero l’autodeterminazione del popolo ebraico nella terra dei padri. Tanto è vero che il Dipartimento di Stato americano accettò con estrema riluttanza la Risoluzione del Congresso del 21 settembre 1922 con la quale si riconosceva la Dichiarazione Balfour ignorandola poi nei fatti, come avvenne per la Convenzione angolo-americana del 1924 con la quale si riconosceva ufficialmente il Mandato per la Palestina come lo strumento per la nascita del Focolare nazionale ebraico accolta con ostilità dal Segretario di Stato, Charles Hughes, e dal dipartimento che di fatto non si “sentì” impegnato al rispetto delle disposizioni mandatarie relative al JNH.

Questa politica si rimanifestò, in seguito, con l’approssimarsi della nascita dello Stato di Israele: il Dipartimento di Stato, infatti, decise l’attuazione di un embargo sulle armi (il 5 dicembre 1947) nei confronti di tutti i paesi del Medio Oriente. Questa decisione penalizzava molto di più il nascente Stato ebraico in quanto la maggior parte degli Stati arabi erano già stati equipaggiati e addestrati dai britannici. L’embargo americano sugli armamenti fu mantenuto fino alla fine degli anni Sessanta.

Il momento più drammatico di questa ambivalente politica americana lo si raggiunse nella primavera del 1948, alla vigilia della dichiarazione di Indipendenza di Israele, quando il Dipartimento di Stato americano guidato da George Marshall si oppose strenuamente alla nascita dello Stato ebraico scontrandosi palesemente con il presidente Truman. Alla fine la volontà di Truman prevalse e gli USA furono il primo Stato a riconoscere Israele il 15 maggio 1948. La successiva amministrazione americana (Dwight Eisenhower Presidente e John Foster Dulles Segretario di Stato) fu particolarmente poco amichevole con Israele sia durante la crisi di Suez del 1956 sia per tutti gli otto anni di presidenza, durante i quali venne mantenne l’embargo alle armi mentre si iniziò ad armare molti paesi arabi (e l’Iran) in funzione anti sovietica dopo che gli USA sostituirono la Gran Bretagna come Potenza egemone del Medio Oriente. L’amministrazione di John Kennedy fu poco coinvolta dalle vicende mediorientali, tuttavia, rispetto all’amministrazione Eisenhower, fu molto più vicina e attenta ai bisogni di Israele. 

Un reale cambiamento nella politica americana lo si ebbe durante l’amministrazione del Presidente Lyndon Johnson. Questa amministrazione fu una dei rari casi dove il Presidente e il Segretario di Stato, Dean Rusk, si trovarono allineati a difendere Israele, prima in sede diplomatica con l’appoggio alla Risoluzione 242 elaborata dal rappresentate britannico Lord Hugh Carandon, poi con la prima e moderna fornitura di armamenti che di fatto terminava l’embargo deciso nel 1947. Questa  amicizia reale e sentita fu macchiata dall’introduzione in sede diplomatica del concetto di “pace in cambio di terra”, principio mai adottato in nessun altro conflitto al mondo (né prima né dopo la Guerra dei 6 giorni), nei confronti di uno Stato aggredito ma vincente sul campo di battaglia, principio imposto unicamente a Israele. Il riverbero negativo di questo principio arbitrario e selettivo è ancora  ben vivo oggi.

La politica americana tornò ad essere ambivalente con l’amministrazione di Richard Nixon, soprattutto quando Segretario di Stato divenne Henry Kissinger. Da un lato, il vitale appoggio militare durante la durissima guerra di Yom Kippur del 1973 (tutti i paesi europei in ossequio al diktat arabo relativo al petrolio, si erano rifiutati non solo di aiutare Israele, paese teoricamente “amico”, ma rifiutarono persino agli americani l’utilizzo delle basi NATO per far giungere gli aiuti militari così gli americani dovettero fare un gigantesco ponte aereo dagli USA, con scalo alle isole Azzorre, fino in Israele) e la successiva battaglia diplomatica in sede ONU contro l’URSS, dall’altro la continua pressione politico-diplomatica nei riguardi del governo israeliano nel cedere sempre di più alle richieste arabe per arrivare ad una soluzione del conflitto che gli arabi hanno voluto, portato avanti con guerre e terrorismo, come se Israele fosse stato il “colpevole” delle guerre scatenate nei suoi confronti. Questa politica proseguì con l’amministrazione Ford che mantenne Kissinger nel ruolo di Segretario di Stato.

Il nadir nelle relazioni negative tra Stati Uniti e Israele fu raggiunto con l’amministrazione di Jimmy Carter coadiuvato, al dipartimento di Stato, prima da Cyrus Vance poi da Warren Christopher. Sarebbe troppo lunga da elencare la sequenza di slealtà e attacchi politico-diplomatici portati avanti da questa amministrazione. Qui è sufficiente ricordare la stipula del trattato di pace tra Israele e l’Egitto a Camp David  nel 1978 dai quali l’Egitto apparve il vero vincitore delle guerre in base al menzionato principio di pace in cambio di terra.

Da quel momento in poi  il rapporto di vicinanza dei Democratici nei confronti di Israele passò a vantaggio dei Repubblicani.

Le relazioni tra USA e Israele si “normalizzarono” nuovamente con le due amministrazioni di Ronald Reagan (1981-1989), che palesarono il contrasto tra la grande amicizia del presidente verso Israele e l’ostilità del Dipartimento di Stato ben rappresentato da George Shultz.

Sulla stessa linea si è mossa l’amministrazione di George Bush senior (anche se lui personalmente non fu legato a Israele come il suo predecessore) con il proprio segretario di Stato James Baker, da molti considerata come un proseguimento delle amministrazioni Reagan. E’ da sottolineare che sotto il mandato del presidente Bush il Medio Oriente riacquisì una posizione centrale nella politica internazionale in generale e in modo particolare per quella americana a causa dell’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein e la conseguente guerra tra la coalizione internazionale e le truppe irachene. Le conseguenze politiche di questi avvenimenti si riverberarono anche su Israele.

Il nuovo ordine immaginato da Bush prevedeva la fine di tutti i conflitti e quindi anche quello tra arabi e israeliani. Il Dipartimento di Stato si mosse e le pressioni su Israele ricominciarono affinché riconoscesse l’organizzazione terroristica OLP come partner per la pace, poi, però Bush perse le elezioni e tutto fu rimandato. 

Il partito democratico riconquistò la Casa Bianca con i mandati del presidente Bill Clinton. Egli fu affiancato, come segretari di Stato, prima da Warren Christopher (già segretario di Stato di Carter) poi da Madeleine Albright (prima donna a ricoprire tale incarico). L’amministrazione Clinton fu molto coinvolta nelle vicende mediorientali e diversi importantissimi avvenimenti relativi a Israele si verificarono durante gli otto anni della sua presidenza. Il primo, fu la stipula degli accordi di Oslo (iniziati segretamente ad Oslo, intavolati a Madrid e conclusi alla Casa Bianca) tra l’OLP di Arafat e il governo israeliano presieduto da Rabin. Il secondo fu la firma del trattato di pace con la Giordania. Il terzo fu l’approvazione da parte del Congresso americano del Jerusalem Embassy Act con il quale il Congresso, con schiacciante maggioranza riconosceva ufficialmente Gerusalemme come capitale di Israele nel novembre del 1995. Questa legge è stata, però, disattesa da tutti i presidenti americani, a partite da Clinton, fino al 2018 quando il presidente Donald Trump finalmente decise di non applicare il “waiver” presidenziale che di fatto neutralizzava la legge. Il quarto e ultimo avvenimento fu il fallimento delle trattative di pace, mediate da Clinton stesso e Madeleine Albright, che videro il categorico rifiuto da parte di Arafat ad ogni proposta offerta dal primo ministro Ehud Barak e che condusse alla successiva ondata di terrorismo conosciuta come Seconda intifada.  

Gli otto anni di presidenza democratica furono seguiti da otto anni di presidenza repubblicana con i due mandati di George W. Bush (figlio). Al Dipartimento di Stato furono nominati Colin Powell, durante il primo mandato e Condoleezza Rice per il secondo, i primi segretari di Stato afro-americani. Durante la presidenza Bush i rapporti con Israele furono sostanzialmente buoni anche se costanti e a senso unico furono le pressioni politiche americane nei confronti di Israele costretto a  offrire maggiori concessioni alla controparte palestinese, la quale è sempre rimasta intransigente nelle sue richieste. Nonostante Israele si adoperò per il ritiro completo da Gaza nel 2005 seguita da una nuova proposta territoriale dal premier Ehud Olmert nel 2008 ci fu l’ennesimo rifiuto palestinese per un compromesso. Ancora una volta la responsabilità del mancato accordo ricadde su Israele e la pressione politica americana – oltre che quella internazionale – si concentrò esclusivamente su di esso. E’ da segnalare che, durante la presidenza Bush,  venne distrutta nel 2007 la centrale nucleare che la Siria stava costruendo a Deir el-Zor vicino all’Eufrate. Questo episodio merita una breve digressione: quando il Mossad riuscì a recuperare delle prove inconfutabili che la centrale era stata progettata segretamente con la collaborazione della Corea del Nord con l’intenzione di produrre uranio per le armi nucleari, Israele chiese l’intervento americano che lo rifiutò, poichè, a parere del Dipartimento di Stato, esso era contrario agli interessi americani. Questa posizione obbligò Israele a decidere in autonomia. Con lo scoppio della guerra civile in Siria alcuni anni dopo l’intera area cadde nelle mani dell’Isis. Si possono solo congetturare le conseguenze per il mondo se l’Isis avesse messo le mani su una centrale nucleare.

Nella partita dell’alternanza democratica degli Stati Uniti, dopo due mandati repubblicani si susseguirono due mandati democratici con la presidenza di Barack Obama (2009-2017). Obama designò come segretari di Stato Hilary Clinton prima e John Kerry successivamente. Con l’amministrazione Obama i rapporti tra Israele e gli USA toccarono un nuovo minimo storico. Soprattutto grazie a John Kerry le relazioni politiche furono tesissime.  Ad ogni rifiuto arabo di sedersi al tavolo dei negoziati corrispondeva una ennesima richiesta americana nei confronti di Israele per nuove concessioni: liberazioni di terroristi, congelamento delle costruzioni in Giudea e Samaria, la riproposizione come base di partenza per la ripresa dei colloqui i mai esistiti confini del ’67. L’apogeo dell’amministrazione Obama nel suo rapporto con Israele si può riassumere in due decisioni: l’approvazione del trattato sul nucleare iraniano del 2015 e la decisione di far passare al Consiglio di Sicurezza la Risoluzione 2334 del dicembre 2016, la  risoluzione più anti-israeliana mai approvata dall’ONU.  

In senso dimetralmente opposto si colloca l’operato dell’amministrazione del repubblicano Donald Trump (2017-2021). Durante i quattro anni del suo mandato, Trump si avvalse di due Segretari di Stato: primo Rex Tillerson e poi Mike Pompeo. Durante il biennio con Tillerson a capo della politica estera americana, l’ambivalente posizione USA che vedeva il presidente favorevole a Israele e il Segretario di Stato sfavorevole, fu ripristinata. Come esempio concreto si può citare l’opposizione del Dipartimento di Stato allo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme per “ragioni di interesse nazionale” nonostante la volontà di Trump di mantenere la sua promessa elettorale. Questa impasse fu superata dal presidente Trump che nel dicembre 2017 decise di non firmare l’ennesimo waiver presidenziale e di riconoscere così Gerusalemme come capitale di Israele come prevedeva il Jerusalem Embassy Act del 1995. Poco dopo Tillerson fu costretto alle dimissioni e fu sostituito da Mike Pompeo. Con il nuovo segretario di Stato si è verificata la più favorevole convergenza pro-Israele tra presidenza e Dipartimento di Stato nella storia degli Stati Uniti. Questa corrispondenza ha portato in un biennio a fondamentali passi di riconoscimento degli interessi strategici tra i due paesi. I più importanti sono stati: ritiro degli USA dal JCPOA, l’accordo nucleare tra Usa e Iran, cessazione delle pressioni politiche unilaterali verso lo Stato ebraico, riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan, riconoscimento della piena legittimità della presenza ebraica in Giudea e Samaria, fine dei finanziamenti americani all’AP e all’UNRWA in base alla legge americana Taylor Force act che impone la sospensione degli aiuti economici americani ad organizzazioni colluse con il terrorismo. Infine, la stipula degli accordi di Abramo tra Israele, UAE, Bahrein e Marocco.

Ben diversa si è dimostrata l’impostazione dall’amministrazione democratica di Joe Biden in questi due anni di presidenza. Il presidente Biden coadiuvato dal segretario di Stato Antony Blinken ha impresso una politica atta a scardinare la maggior parte dei risultati ottenuti dalla presidenza Trump: ritorno all’accordo nucleare con l’Iran con un accordo peggiore di quello firmato da Obama nel 2015, tentativo di aprire un consolato per i palestinesi a Gerusalemme (atto illegale sia per la legge americana che per il diritto internazionale) contro la volontà di Israele, rifinanziamento dell’AP e dell’UNRWA nonostante le collusioni con il terrorismo (atto illegale per la legge americana), aumento delle pressioni politiche a senso unico verso Israele per riprendere i colloqui di pace.

Questo background politico ci riporta alla questione iniziale: le dichiarazione del portavoce, Vedant Patel, del Dipartimento di Stato in merito alla vicenda dell’uccisione della giornalista Shireen Abu Akleh. In pratica il Dipartimento di Stato ha dichiarato che Israele “deve rivedere le regole di ingaggio” nelle sue operazioni anti terrorismo. Nessun accenno è stato fatto in merito alla poca chiarezza sulle circostanze della morte della giornalista – anche una commissione americana ha dichiarato che non si può attribuire con certezza l’origine del colpo fatale – e che Israele, come ha sempre operato peraltro, non ha mai ucciso intenzionalmente nessun giornalista, oppure al fatto che il terrorismo è originato nei territori controllati dall’AP e le sue “forze dell’ordine” non solo non fanno nulla per combatterlo ma lo fiancheggiano. In pratica l’esercito di Israele (assieme allo Stato Maggiore dell’esercito) è diventato il solo responsabile dell’accaduto perché avrebbe delle regole di ingaggio sbagliate cioè troppo permissive. La dichiarazione di Patel manifesta un’ingerenza clamorosa negli affari interni di un paese alleato. vorrebbero decidere che cosa sia giusto e cosa sbagliato nella lotta al terrorismo che Israele è costretto dagli arabi a dover condurre in territorio ostile. Esprimendo questo giudizio il portavoce del Dipartimento di Stato ha di fatto messo sotto accusa la modalità di Israele nel difendersi dal terrorismo cosa che non è mai stata fatta con nessun altro paese considerato alleato o “amico”. Mancano ancora due anni di presidenza Biden e ci sono tutti gli elementi per prevedere che la politica del duo Biden-Blinken non mancherà di causare ulteriori attriti con Israele.  

 

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