Editoriali

Verso l’esito peggiore

Da giorni ormai si rincorrono le voci di un accordo tra Israele e Hamas finalizzato alla liberazione dei 132 ostaggi rimasti nelle mani dell’organizzazione jihadista a Gaza. L’ultima versione dell’accordo secondo il Washington Post, prevede un cessate il fuoco per la durata di sei settimane, lo scambio di ostaggi e detenuti palestinesi in un rapporto di 3 a uno, e un ritiro sostanziale dell’esercito israeliano dal terreno di combattimento della Striscia.

Difficile immaginare scenario peggiore.

Il 23 novembre scorso, Alex Nachumson scriveva su Arutz Sheva:

http://www.linformale.eu/solo-una-vittoria-di-israele-puo-liberare-gli-ostaggi/

“Israele deve avere un obiettivo in mente, ovvero sconfiggere e distruggere Hamas il più rapidamente possibile. Questo è l’unico modo per garantire la sicurezza e l’incolumità dei suoi nove milioni di cittadini, a breve e lungo termine, poiché le conseguenze strategiche per qualsiasi cosa che non sia una vittoria completa e assoluta potrebbero avere enormi implicazioni esistenziali. La migliore probabilità di liberare gli ostaggi è vincere questa guerra…Yaha Sinwar ha dimostrato che continuerà a combattere senza curarsi dello spargimento di sangue degli abitanti di Gaza. È pronto a sacrificare il suo stesso popolo per la sua causa. Non è possibile nessun ragionamento o richiesta morale con un uomo simile. Ha bisogno di essere costretto in un angolo finché non si arrende o viene distrutto.

Solo una vittoria di Israele potrà concludere questa guerra, liberare gli ostaggi e garantire allo Stato ebraico sicurezza e stabilità”.

Due mesi dopo, le cose stanno andando in tutt’altra direzione. Israele non sta vincendo la guerra, la sta perdendo, e la sta perdendo dal momento stesso in cui la priorità non è più quella di eliminare Hamas da Gaza e garantire la sicurezza futura di Israele, ma quella di liberare gli ostaggi.

Fu Benny Gantz a chiarirlo un po’ più di un mese fa, quando disse che l’obiettivo principale era diventato la liberazione degli ostaggi. Di fatto le cose stanno in questi termini nonostante i bellicosi proclami di Netanyahu e la continua sottolineatura che l’obiettivo della guerra non è mutato. I fatti lo smentiscono.

Israele la guerra la sta perdendo perché all’obiettivo bellico, la distruzione di Hamas, ha anteposto quello umanitario, la liberazione degli ostaggi.

Come ha sottolineato Daniel Pipes, http://www.linformale.eu/il-campo-di-battaglia-reale-conta-piu-delle-opinioni-al-riguardo-intervista-a-daniel-pipes/“Vorrei che il governo israeliano presentasse la sconfitta di Hamas come il modo migliore per ottenere il ritorno degli ostaggi”, ma la sconfitta di Hamas è lontana, non è certo la condizione per la liberazione degli ostaggi.

Pensare che, nel caso in cui l’accordo con Hamas dettagliato dal Washington Post, andasse in porto, dopo un mese e mezzo, l’operazione militare israeliana riprenderebbe con lena e determinazione, è semplicemente puerile.

L’accordo che si prospetta è figlio di una disomogeneità interna al Gabinetto di guerra tra visioni diverse su come condurre la guerra relativamente agli obiettivi da conseguire, e della fortissima pressione americana nell’orientarla il più possibile non nel senso di una reale vittoria per Israele ma di una mezza vittoria, che equivale, di fatto, a un fallimento.

Il fallimento è già a monte, nella trattativa con un’efferata organizzazione criminale, che non si sta affatto piegando alle richieste israeliane, ma sta contrattando alla pari cercando di ottenere il massimo vantaggio possibile.

Non si evidenzia alcuna debolezza di Hamas in questo accordo, ma la sua forza contrattuale. Hamas non è costretto a liberare gli ostaggi, lo fa perché ritiene, a ragione, di poterne lucrare la maggiore convenienza politica e militare.

Non è necessario essere apocalittici per vedere il profilarsi di un disastro, apparecchiato da un Gabinetto di guerra debole sotto commissariamento americano, e le cui ripercussioni, se le cose andranno come sono state annunciate, agiranno pesantemente su Israele negli anni che verranno.

 

 

 

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