Israele e Medio Oriente

Cambiamenti tettonici negli atteggiamenti verso Israele, di Daniel Pipes

Mentre arabi e musulmani provano simpatia per Israele la sinistra è sempre più distante. Questi cambiamenti implicano un grande imperativo per lo Stato ebraico.

Soffermiamoci sul primo di tali mutamenti. Di recente, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha parlato di un “grande cambiamento” nel mondo arabo, il quale ha crescenti rapporti con le aziende israeliane perché ha bisogno di “tecnologia e innovazione [israeliane] (…) di acqua, di elettricità, di cure mediche e di high-tech”. Spiegando questa normalizzazione come la conseguenza del fatto che i paesi arabi “cercano di avere legami con il forte”, Netanyahu è stato molto diplomatico nei confronti dei progressisti americani aggiungendo un altro fattore: la politica di appeasement voluta da Barack Obama verso Teheran ha spinto i paesi arabi a prendere sul serio i reali pericoli che li minacciano.

È sorprendente osservare che la guerra su vasta scala ingaggiata dai paesi arabi contro Israele è durata solo 25 anni (dal 1948 al 1973) ed è finita 45 anni fa; e che la Turchia e l’Iran hanno da allora raccolto la fiaccola antisionista.

Né sono soltanto le aziende israeliane a fare breccia nei paesi arabi. Il  ministro israeliano dello Sport è scoppiata in lacrime mentre ad Abu Dhabi suonavano le note della Hatikvah, l’inno nazionale di Israele, per la vittoria di un atleta israeliano. Girano voci di una stretta di mano tra il principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammad bin Salman (MbS) e il premier israeliano.

Il fatto che l’animosità araba e musulmana si sia incrinata, e probabilmente non sarà mai rivitalizzata, equivale a un cambiamento tettonico nel conflitto arabo-israeliano. Il secondo mutamento, non meno importante, riguarda la crescente ostilità nutrita dalla sinistra globale nei confronti di Israele.

Questo schema può essere riscontrato costantemente dalla Corea del Sud alla Tailandia al Sudafrica alla Svezia fino al Brasile. La conferenza di Durban del 2001 evidenziò inizialmente tale fenomeno. Tra i molti altri esempi, la piattaforma del movimento Black Lives Matter accusa Israele di “apartheid” e di “genocidio”. Un sindacato comunista in India, che rappresenta 16milioni di agricoltori, pare si sia unito al movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS).

Gli atteggiamenti nei confronti dello Stato ebraico seguono una progressione quasi lineare della crescente negatività, man mano che ci si sposta da destra a sinistra. Un  sondaggio condotto nel 2012 dal Pew Research Center su un certo numero di americani adulti ha rilevato che il 75 per cento dei repubblicani era più favorevole a Israele che ai palestinesi, seguito dal 60 per cento dei repubblicani moderati e progressisti, dal 47 per cento degli indipendenti, dal 46 per cento dei democratici conservatori e moderati e dal 33 per cento dei liberaldemocratici.

Ma non è stato sempre così.  Josif Stalin fu talmente fondamentale per la nascita di Israele nel 1947-1949, fornendo sostegno diplomatico e armamenti, che Abba Eban, il primo ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, osservò che “non avremmo potuto farlo, sia a livello diplomatico sia militarmente”, se non grazie all’aiuto sovietico. I democratici Harry Truman e John F. Kennedy furono tra i presidenti americani più pro-Israele, mentre il repubblicano Dwight Eisenhower fu indiscutibilmente quello più ostile.

I rapporti contrastanti tra il principe saudita Mohammad bin Salman e Jeremy Corbyn simboleggiano questi due cambiamenti tettonici, così come adesso Israele ha migliori relazioni con l’Egitto che con la Svezia. Il presidente del Ciad si reca in visita in Israele, ma una cantante neozelandese annulla un suo concerto a Tel Aviv. Gli atleti israeliani gareggiano negli Emirati Arabi, ma vengono banditi in Spagna. I musulmani sono sempre più indifferenti al fallimento della diplomazia israelo-palestinese, mentre la Sinistra esprime crescente rabbia per questo.

Quest’ultimo punto ha una grande importanza: la rabbia contro Israele non riguarda le relazioni tra ashkenaziti e sefarditi, le tensioni associate al Monte del Tempio, un possibile attacco all’infrastruttura nucleare iraniana o le stesse armi nucleari israeliane. Piuttosto, riguarda quasi esclusivamente la condizione di circa  3milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e a Gaza. Grazie a una combinazione di esperienza nelle pubbliche relazioni palestinesi e di antisemitismo continuo, il benessere di questa piccola popolazione indifesa, ma fanatica, si è trasformato nella principale questione globale dei diritti umani, ricevendo incessantemente maggiore attenzione, ad esempio, dell’Etiopia – e motiva quasi tutti le accuse mosse a Israele.

Pertanto, quando la sinistra, oramai ampiamente esclusa dal potere, finirà per tornare al governo in paesi come Giappone, India, Germania, Francia, Regno Unito e Stati Uniti, Israele dovrà affrontare una crisi a causa delle situazioni irrisolte in Cisgiordania e a Gaza. Di conseguenza, una risoluzione di questo problema dovrebbe essere la massima priorità per gli israeliani.

Ciò non significa sollecitare l’ennesimo “piano di pace” condannato a schiantarsi contro la roccia dura dell’intransigenza palestinese. Ciò vuol dire che, qualunque sia il piano preferito, è necessario porre fine all’aggressione palestinese nei confronti di Israele: niente più attacchi suicidi, aquiloni incendiari e razzi. Solo questo placherà la rabbia della sinistra.

Solo una vittoria di Israele e una sconfitta palestinese raggiungeranno questo obiettivo. In altre parole, riuscire a far arrendere i palestinesi è una priorità urgente per Israele e per i suoi sostenitori.

Traduzione in italiano di Angelita La Spada

Qui l’articolo originale in lingua inglese

 

 

 

Torna Su