Editoriali

Cosa sta accadendo all’Arabia Saudita e cosa significa per Israele

La stabilità politica decennale dell’Arabia Saudita sembra essere entrata in una fase di cambiamento, per adesso, solo marginale. L’inasprimento delle politiche interne e la radicalizzazione del conflitto con lo Yemen sono solo la punta di un iceberg ben più complesso, le cui conseguenze si prospettano se non decisive, almeno interessanti dal punto di vista israeliano.

Partiamo da una questione puramente strategica: se volessimo semplificare al massimo la situazione che vige ad oggi nel Medio Oriente potremmo partire dal presupposto che la sfida lanciata dalla lotta contro Daesh non sembra più preoccupare le grandi potenze della regione. L’ISIS è virtualmente sconfitta in quanto a leadership e controllo del territorio; quello che rimane è solo una massa di combattenti radicalizzati provenienti da ogni angolo del globo, il cui destino è oggi impossibile, o quasi, da prevedere. Qualcuno tornerà in occidente, qualcuno resterà in Medio Oriente e inizierà a combattere al soldo di altre organizzazioni terroristiche, come Al Qaeda. Quel che è chiaro è che la guerra in Siria e in Iraq ha lasciato una voragine di instabilità nella regione e che, come prevedibile, è in corso una vera e propria guerra fredda tra le potenze regionali per decidere come “spartirsi” le ceneri di ciò che Daesh ha lasciato.

L’Iran è la nazione che in assoluto ha tratto maggior vantaggio dalla guerra, poiché non essendosi diffusa in maniera estensiva all’interno dei confini dello stato, ha permesso alla teocrazia sciita di evitare facilmente l’ipotesi di una guerra difensiva. L’offensiva, dunque, al fianco di Assad che sembra aver ripreso il controllo, almeno in parte, della Siria, ha permesso all’Iran di estendere il suo controllo fino quasi al Mediterraneo. Le milizie sciite che per decenni sono state appoggiate militarmente ed economicamente dall’Iran sembrano aver finalmente raggiunto il peso strategico che permetterebbe all’Iran di controllare a distanza tutto il Medio Oriente. Insomma, l’Iran aveva poco da perdere e molto da guadagnare da questa guerra, e per ora ha solo guadagnato.

Prendiamo come buona questa (in basso) mappa del Pew Research Center. I paesi a maggioranza sciita, oltre l’Iran, sono l’Iraq e l’Azerbaijan, che però ha sempre accuratamente evitato di inserirsi negli affari del Medio Oriente, essendo già ampiamente impegnato nelle scottanti questioni legate al Mar Caspio. In Iraq, l’Iran conta uno sconfinato numero di sciiti potenziali alleati, non in quanto a leader politici, ma in quanto a masse destabilizzanti dell’ordine, un ordine inesistente oggi ma che si sarebbe potuto concretizzare senza la presenza di un così consistente sostegno dei ribelli sciiti alla causa iraniana.




In Siria, grazie all’appoggio militare e logistico dell’Iran, Assad sembra avere la vittoria in tasca, e la minoranza sciita a sostegno del leader tanto discusso godrà a breve di un potere smisurato rispetto alla maggioranza sunnita nell’area.

Yemen e Libano rappresentano altre due questioni spinose, in quanto l’appoggio al primo rappresenta il baluardo più consistente della guerra per procura tra Iran e Arabia Saudita, che sono sempre più ai ferri corti. Nel libano gli interessi Iraniani iniziano a scontrarsi con Israele, poiché dopo decenni di sostegno (anche qua sia militare che logistico) ad Hezbollah, l’Iran sembra pronto a stabilire una vera e propria roccaforte oltre il Golan, utilizzando, per non sporcarsi le mani, le milizie di Hezbollah per aumentare il senso di insicurezza di Israele.

Osservando la mappa sottostante, dove si può vedere la disposizione circolare dell’Iran e dei suoi alleati, appare chiara una verità molto semplice: ci sono ben tre stati circondati. Israele, Giordania e Arabia Saudita.

Non a caso, ad oggi la cooperazione in ambito militare e d‘intelligence tra Israele, Giordania e Arabia Saudita sta crescendo a ritmi elevati. Sarebbe impossibile da un punto di vista politico per questi due stati arabi, gli unici stati arabi sunniti che hanno mantenuto una certa stabilità politica, dichiarare apertamente di aver aperto le porte a Israele. Tale alleanza dunque è puramente strategica, soprattutto per quanto riguarda la Monarchia del Golfo. La motivazione che sta alla base della segretezza di questo nuovo asse tra monarchie arabe e Israele è apparentemente banale: dichiarare di avere rapporti stretti con Israele comporterebbe una serie di rivolte popolari o comunque una consistente perdita del consenso politico e religioso (perdita che questi paesi non possono davvero permettersi).

Dunque non è ancora chiaro quando questa cooperazione emergerà, ma è altrettanto chiaro che dipenderà tutto dagli sviluppi del dopoguerra siriano. In questo contesto Israele sta riuscendo, malgrado le difficoltà della situazione nella regione, a utilizzare la crescente influenza dell’Iran in Medio Oriente per allentare, se non addirittura cancellare, la storica rivalità che l’ha contrapposta per decenni agli stati arabi in quanto tali. Se per anni abbiamo visto sciiti e sunniti uniti nella causa contro Israele, probabilmente domani vedremo Israele a fianco delle monarchie sunnite contro le milizie sciite. Che ruolo avranno i gruppi terroristici sunniti, come Al Qaeda e la stessa ISIS (se non si trasformerà in qualcos’altro) nel periodo che si prospetta non è ancora chiaro, quello che è chiaro, invece, è che in questo momento la minaccia più prossima – chiaramente l’Iran e le sue “proxies” – sembrano rappresentare una priorità.

Ora che è stato fornito un quadro semplice ma chiaro della situazione geopolitica della regione, proviamo a comprendere la natura dei cambiamenti interni che stanno avvenendo in Arabia Saudita, partendo appunto dal presupposto che la Monarchia Sunnita stia, in parte, cercando di rafforzare il legame con gli Stati Uniti e, in minima parte, con Israele.

A giugno del 2017 il re Salman ha nominato come principe ereditario suo figlio, Mohammad Bin Salman, che attualmente ricopre la carica di Vice Primo Ministro e Ministro della Difesa. Speculazioni sulla nomina di Mohammad Bin Salman (che indicheremo da qua in poi come MBS) affermano che la manovra del re ha in realtà uno scopo ben preciso. MBS è, infatti, un giovane di trentadue anni brillante e carismatico, laureato in giurisprudenza ma con un’esperienza consistente nell’ambito di attività imprenditoriali e di Business. Ha portato avanti la campagna contro i ribelli sciiti houthi in Yemen, dunque si sta concretizzando come una figura importante nell’ambito della lotta contro le milizie sciite, e oltre a questo ha dimostrato capacità innovative incredibili in ambito economico.




Il Principe è infatti l’ideatore del piano economico “Saudi Vision 2030”, una strategia finalizzata alla diversificazione delle entrate saudite. Ad oggi, infatti, l’economia saudita si basa all’80% sui proventi petroliferi. Seppure la quantità smisurata di petrolio saudita rappresenti il principale motore di ricchezza e di influenza politica della monarchia, il principe saudita vuole allargare il bacino dei proventi e della partecipazione saudita al mercato internazionale inserendo ulteriori altri campi dal quale sviluppare dei flussi di entrate alternativi. Insomma la frase di MBS «penso che saremo capaci di vivere senza petrolio: ne avremo bisogno ma potremo vivere senza» spiega bene il senso di questa manovra.

Saudi 2030 è la prima vera rivoluzione economica saudita. Il principe MBS ha dato alla sua economia un tempo di circa dieci anni per iniziare a sfruttare tutte le risorse minerarie dimenticate di cui dispone il paese, ha deciso l’apertura di un fondo sovrano e la trasformazione della Saudi Aramco in una holding, vuole investire rapidamente nel turismo e nei servizi d’intrattenimento e, soprattutto, ha deciso di tare un taglio netto agli sprechi (in primis quelli che riguardano la spesa militare).

Insomma, da quello che si evince dalle prime manovre politiche di MBS, il principe sembra voler rendere l’Arabia Saudita una nazione innovatrice mantenendo stabili le radici della monarchia islamica.

Il week end di fuoco che ha coinvolto proprio MBS una settimana fa è stato definito da molti “il gioco del trono” del Medio Oriente. Quattro sono gli avvenimenti che nel giro di due giorni hanno sconvolto il paese: il primo è certamente le dimissioni del Premier Libanese Saad Hariri. Dopo aver rilasciato un video nel quale lamentava la paura di venire assassinato e criticava, in merito, la crescente influenza iraniana nel paese (ogni riferimento a Hezbollah è puramente casuale), il premier si è stabilito a Riyad, la capitale protettrice dei sunniti. “il mio sesto senso mi dice che alcuni mi vogliono morto. C’è un clima molto simile a quello che precedette l’assassinio di mio padre il 14 febbraio 2005. Non permetteremo che il Libano diventi l’innesco dell’insicurezza regionale. Le mani dell’Iran dagli affari del mondo arabo verranno recise».

Queste sono state le parole pronunciate da Hariri nel corso del discorso nel quale ha confermato le sue dimissioni. La questione appare ancora più chiara se si considera che il PM libanese aveva avuto un colloquio con Ali Akbar Velayati, consigliere della Politica di Estera della guida suprema iraniana Ali Khamenei, appena il giorno prima di volare a Riyad e lasciare questo messaggio ai suoi cittadini.

Il secondo avvenimento da segnalare è il missile a lungo raggio lanciato dai ribelli sciiti houthi destinato a colpire l’aeroporto di Riyad. Il missile Burkan 2-H è stato lanciato dallo Yemen alle otto di sera (ora locale), ed è stato fermato da un Patriot terra-aria saudita. MBS ha accusato l’Iran di aver tentato di aggredire militarmente l’Arabia Saudita attraverso lo Yemen. La faccenda è ancora più complessa se si tiene conto del fatto che l’obiettivo del lancio era l’aeroporto di Riyad, una infrastruttura civile la cui distruzione sarebbe stata considerata un crimine di guerra.

Il terzo avvenimento è la morte dell’ex principe ereditario saudita Mansour bin Muqrin. Durante un viaggio in elicottero nei pressi nel confine Yemenita, l’elicottero si è “schiantato” – secondo le versioni ufficiali – e l’esplosione ha causato la morte di tutti i passeggeri. Anche qua la questione è più che problematica, essendo avvenuto lo schianto nei pressi del confine Yemenita e solo 24 ore dopo il lancio del missile sopracitato contro Riyad.

Il quarto avvenimento è l’arresto di dozzine di principi, ministri, businessman e nobili sauditi, accusati di corruzione. Alcuni di questi, probabilmente, non hanno digerito la continua centralizzazione del potere nelle mani del principe ereditario, che di fatto sta già governando il paese. Uno di loro, Alwaleed Bin Talal, è il multimilionario più ricco del paese, un uomo la cui cattura manda un vero e proprio segnale circa l’impossibilità di arrestare l’ascesa al potere del trentaduenne MBS.

Se queste purghe possano considerarsi un fattore positivo o meno per il paese e per la regione non è ancora possibile da definirsi. La centralizzazione del potere potrebbe lasciare l’amaro in bocca a numerosi esponenti della nobiltà saudita, ma allo stesso tempo abbiamo di fronte a noi un principe giovane, innovatore e visionario, che sta provando a rendere la nazione un interlocutore affidabile e capace per tutto l’occidente. Non a caso è stato proprio lui a sfidare la teologica discriminazione delle donne dando la possibilità alla componente femminile saudita di guidare e di partecipare agli avvenimenti sportivi. E’ chiaro che il clero Wahabita non permetterà mai a determinati tipi di apertura di invadere l’Arabia e di stravolgere la predominanza della Sharia.

Cosa significano questi avvenimenti per il Medio Oriente. Apparentemente non sembrano essere correlati né rilevanti per la stabilita della regione. Un occhio più attento direbbe che il tutto sembra rilevante solo nel breve periodo, e che nel lungo periodo, invece, ogni nazione del MO si sta solo preparando all’escalation di tensioni che seguirà la guerra siriana. Sauditi, Israeliani e Giordani non tollereranno l’invadente presenza iraniana nell’area in futuro. Questo è anche il motivo che ha condotto la campagna saudita contro lo Yemen a radicalizzarsi al punto da generare un disastro umanitario senza precedenti nella zona: l’obiettivo della guerra contro gli Houthi è solo ed esclusivamente l’allontanamento dell’influenza iraniana nella penisola arabica, ma il rischio causato dall’impatto mediatico del conflitto sta consacrando l’Iran come “difensore” dei deboli sciiti oppressi in tutto il mondo arabo.

Insomma la politica del pugno duro potrebbe considerarsi positiva se il principe MBS riuscirà a diminuire l’influenza del clero sunnita nel paese e a iniziare una serie di riforme politiche per ridimensionare il potere della religione. Allo stesso tempo, ora che le purghe gli hanno permesso di prendere in mano tutte le forze di sicurezza ( Mutaib Bin Abdullah era capito della Guardia Nazionale prima dell’arresto) il suo potere quasi smisurato farà storcere il naso a politici e nobili che potrebbero rivoltarsi contro di lui.




Jared Krushner e Donald Trump sembrano avere totale fiducia nel principe ereditario, e questa è una buona notizia per Israele, che può contare sulla mediazione statunitense per allacciare, per la prima volta nella storia, un sano rapporto con la nazione guida del mondo arabo.

Tirando le somme, si potrebbe giungere alla conclusione che la fine della guerra in Siria porterà ad un nuovo tipo di conflitto intestino nel quale il destino delle ceneri Irachene e Siriane verrà spartito tra forze sciite e forze sunnite. Israele non potrà, come ha fatto con Daesh, restare militarmente neutrale, perché questa volta l’Iran sta “guadagnando” il tacito consenso dalla comunità internazionale circa la costruzione di un corridoio sciita nell’area. Utilizzerebbe, come ha fatto sino ad oggi, le fazioni ribelli e Hezbollah per infastidire i confini Israeliani e Sauditi, ma lo farebbe con il benestare della Russia e delle forze che l’hanno appoggiato nella lotta contro Daesh. La strategia Iraniana è risultata vincente fino ad ora, l’utilizzo nascosto delle proxies permette alla potenza sciita di emergere come difensore dei popoli deboli del Medio Oriente senza pagare il costo diplomatico che seguirebbe ad un attacco condotto direttamente con il proprio esercito.

Il futuro della regione sembra incerto, ma senza dubbio una politica intelligente e pragmatica potrebbe portare Israele a utilizzare il vantaggio strategico del “nemico” iraniano come chiave per aprire le porte ad una nuova stretta di mano con il mondo arabo.

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