Storia di Israele e dell’Ebraismo

Gli ebrei nella letteratura latina

Alla conoscenza dei rapporti tra la cultura romana e quella ebraica possono contribuire gli scritti degli autori latini del tempo, che nelle loro descrizioni riflettono le perplessità e le incomprensioni che nacquero da questo incontro.

Fondamentalmente, il campo dei concetti oggetto di attenzione ricorrente da parte degli scrittori latini, e da essi identificati come caratteristiche peculiari della cultura e della religione ebraica, si può restringere a quattro punti quali elementi essenziali dell’ “alterità”:

  • il carattere totalmente aniconico del Dio ebraico;
  • la consuetudine della circoncisione;
  • il riposo del sabato;
  • l’astenersi dal cibarsi di carne suina.

Per i romani, avvezzi ad un culto materializzato ed ampiamente rappresentativo, il Dio ebraico, unico e non rappresentabile, risultava totalmente incomprensibile. Le consuetudini rituali, dal canto loro, vennero spesso fraintese ingenerando preconcetti che sarebbero sopravvissuti per molti secoli a venire.

In svariate composizioni dei poeti dell’età Augustea (Orazio, Ovidio, Tibullo) si richiama la consuetudine del riposo del sabato, citato a più riprese, il che lascia intravedere una diffusione già capillare e consolidata delle tradizioni ebraiche a Roma in quel tempo.

Seneca (4 a. C. – 65 d. C.), poco tempo dopo, condannava il rispetto del sabato e lo considerava pratica nociva equivalente a “perdere un settimo della vita” e relegava l’ebraismo al rango di superstizione. Riguardo al sabato, la definisce “usanza di un popolo di mascalzoni”. Il concetto venne poi ripreso quasi 4 secoli dopo da Rutilio Namaziano per il quale “l’osservanza del sabato è un segno di indolenza”.

Tacito (56 d. C. – 120 d. C.), per quanto ironico nei confronti dei riti ebraici, mostrò un certo rispetto per il loro Dio, apprezzandone in modo particolare il carattere aniconico e spirituale di cui percepiva il potenziale rivoluzionario: “I Giudei concepiscono un solo Dio e solo con il pensiero, non potendo un essere supremo ed eterno essere rappresentato in quanto è senza fine”.

Riguardo ai riti però Tacito è molto critico e come Seneca li relega al rango di superstitiones : a detta di Tacito usanze quali l’endogamia e le strette osservanze alimentari non potevano che “suscitare l’odio di altre genti”.

Il V libro delle Historiae di Tacito è di grandissimo interesse, riflettendo le idee diffuse nel mondo romano negli anni immediatamente successivi alla distruzione del Tempio di Gerusalemme per mano di Tito nel 70 d. C. Ad esempio, l’episodio della cacciata dall’Egitto del popolo ebraico viene descritto quale “allontanamento di quel popolo inviso agli Dei”, perché solo in questo modo la pestilenza in atto avrebbe potuto essere arrestata. (Il tema dell’ebreo quale portatore di pestilenze ricorrerà molto spesso anche nei secoli a venire e lungo tutto il medioevo).

Riguardo all’immaterialità del Dio ebraico (definito da molti per questo motivo Deus incertus), questa concezione totalmente estranea al mondo romano dette vita nel tempo ad ogni genere di speculazione su quale dio del pantheon romano potesse effettivamente corrispondergli, e non mancarono le ipotesi più fantasiose: dal più quotato Giove alcuni arrivarono persino ad ipotizzare che il Dio ebraico fosse in realtà Bacco, data l’osservazione di Plutarco sugli aspetti dionisiaci della festa delle capanne (Sukkot).

Giovenale (60 d. C. – 130 d. C.) tende a mettere in ridicolo le usanze giudaiche vedendo nel culto ebraico un’inconsistenza assoluta in cui Dio è in sostanza il nulla (“un dio che non si può vedere ha la consistenza delle nuvole”), oltre a criticare apertamente il presunto loro disprezzo per le leggi romane espresso secondo lui in comportamenti quali la circoncisione e l’astensione dalla carne di maiale.

Sebbene ironico, Giovenale fu comunque più bonario del predecessore Petronio (27 d. C. – 66 d. C.), che aveva estrapolato i due comportamenti in oggetto stravolgendone completamente il significato e sottolineandone anzi le implicazioni perverse: il rifiuto di cibarsi di maiale portò Petronio a sostenere che la causa di questo comportamento fosse che gli ebrei consideravano il maiale alla stregua dell’uomo, e che immaginassero il loro stesso Dio in forma di maiale (anche questo concetto, nato dall’incapacità di comprendere il significato dell’usanza, perdurerà per i secoli a venire e per molto tempo l’ebreo verrà raffigurato come un maiale).

Inoltre Petronio, come altri latini, era ossessionato dalla circoncisione, vista come atto di disobbedienza alle leggi romane, al punto da considerare i circoncisi “misantropi e pericolosi per la società”.

Marziale (40 d. C. ca. – 104 d. C.), che chiama i Giudei “trasteverini”, si lamenta della confusione che “l’infuriata turba” provoca e lancia strali contro “il fetore delle donne che digiunano di sabato”. La sua ossessione nei confronti della potenza sessuale degli ebrei, che si credeva fosse incrementata dalla pratica della circoncisione, tornerà anch’essa ad essere evocata in epoche successive.

Nel V secolo, il già citato Rutilio Namaziano, oltre a riprendere le tesi sull’infingardia di chi non lavora il sabato, mostra ostilità anche nei confronti del Cristianesimo in quanto nato da radici giudaiche e chiama gli ebrei radix stultitiae. Nella descrizione del suo viaggio tra Roma e la Gallia fa riferimento alla oscena gens ebraica che pratica la circoncisione, per lui inequivocabile segno di lascivia.

Tutti gli elementi per la crescita florida della pianta del pregiudizio sono già nel terreno. I secoli a venire ne raccoglieranno i frutti.

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