Antisemitismo, Antisionismo e Debunking

Gli ebrei sopravvissuti alla Shoah nei campi profughi della Germania

Le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza.
I caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici.

Khalil Gibran

L’Europa dell’immediato secondo dopoguerra può essere paragonata ad una lunghissima e tortuosa strada percorsa da un flusso costante e massiccio di profughi; milioni di uomini, donne e bambini si muovono da un territorio ad un altro cercando di ricostruire le loro vite dopo le catastrofi umane e materiali del conflitto. Tra queste persone vi sono anche gli ebrei sopravvissuti all’Olocausto.

Tra la Shoah e la nascita di Israele, migliaia di ebrei sopravvissuti al genocidio rimasero come sospesi, sia fisicamente sia psicologicamente, tra la memoria dell’Olocausto e la speranza di una rinascita in un’altra terra, l’allora Palestina mandataria o gli Stati Uniti.

Lo studio della condizione degli ebrei superstiti nei campi profughi non colma soltanto il vuoto che solitamente sussiste in una narrazione superficiale della storia contemporanea del secondo dopoguerra, che istituisce una continuità temporale strettissima tra l’Olocausto e la nascita d’Israele omettendo questa tematica, ma ricostruisce anche le relazioni che intercorsero tra i sopravvissuti, gli occupanti americani e i cittadini tedeschi nell’immediatezza della fine del conflitto. L’analisi si è focalizzata sulla Baviera, la zona occupata dagli americani, perché fu in questa area che i profughi ebrei si stabilirono prevalentemente.

Alla fine della guerra la maggioranza dei soldati, nonché la maggior parte delle persone nell’Europa Occidentale, riteneva che la liberazione dei campi di concentramento e di lavoro avrebbe rivelato che i nazisti erano riusciti nei loro sforzi per distruggere l’ebraismo europeo. Tuttavia, trovarono circa 200.000 sopravvissuti; tra questi, 90.000 erano ebrei vissuti in clandestinità in Germania, sposati con coniugi tedeschi o sopravvissuti dei campi di concentramento e delle marce della morte dall’Est. Questo numero decrebbe rapidamente nelle prime settimane dopo la liberazione quando decine di migliaia di ebrei morirono a causa della lunga sotto nutrizione e di malattie come la tubercolosi, il colera, e il tifo. Nonostante i migliori sforzi dei medici alleati, si ritiene che tra i 20.000 e i 30.000 sopravvissuti in Germania siano morti entro poche settimane dalla fine della guerra. Secondo le statistiche, 4 ebrei liberati su 10 sono morti nelle immediate settimane dopo la fine del conflitto. Si stima che dopo l’8 maggio del 1945 vi fossero in Germania tra i 60.000 e i 70.000 profughi ebrei, Jewish Displaced Persons (DPs) come indicano le fonti ufficiali americane. Essi hanno dovuto affrontare la questione se restare in Germania in attesa di un reinsediamento o cercare di tornare alle loro case in cerca di notizie dei loro cari e dei loro amici dai quali erano stati separati dalla Shoah; coloro che fecero il viaggio di ritorno verso i loro Paesi d’origine, soprattutto gli ebrei sopravvissuti dell’Europa Orientale, riscontrarono il riemergere di un forte antisemitismo come dimostrano i pogrom di Cracovia e Kielce in Polonia e la perdita di tutta la propria famiglia, contesti che li motivarono a intraprendere un secondo viaggio di ritorno verso la Germania. Per questi sopravvissuti, ogni posto era meglio del “cimitero” che avevano visto nell’Europa Orientale

Anche se la guerra fu dichiarata ufficialmente finita nel maggio del 1945, la resa totale della Germania non portò ad una cessazione della sofferenza in Europa, specialmente nella stessa Germania. Al contrario, la pace Alleata condusse a nuove e spaventose incertezze sia per gli ebrei sia per i non ebrei sopravvissuti. Nel dopoguerra la Germania era in uno stato di completa devastazione e milioni di persone provenienti da diversi paesi erano morte o disperse.

Inoltre, l’improvviso afflusso di circa quattordici milioni di rifugiati, tra cui i sopravvissuti della Shoah, ex lavoratori forzati, lavoratori stranieri volontari, profughi e soldati aggravò la situazione dell’economia tedesca, condizione aggravata dall’arrivo di diversi milioni di persone di etnia tedesca, Volksdeutsche, che erano fuggiti con l’avanzata dell’Armata Rossa o erano stati espulsi dai loro Paesi d’origine dopo l’Accordo di Potsdam. Questo significava che un quarto della popolazione totale in Germania alla fine del 1945 era costituito da rifugiati. Gli Alleati occidentali si trovarono di fronte l’arduo compito di restituire i milioni di rifugiati rimpatriabili ai loro Paesi d’origine e il Supreme Headquarters Allied Expeditionary Force (SHAEF) iniziò questo compito poche settimane dopo l’armistizio. Nel giugno del 1945, 5,25 milioni di persone erano state messe su dei treni e rimpatriati al ritmo di 80.000 al giorno. Questo numero aumentò a 2,75 milioni nel mese di luglio, quando i cittadini sovietici furono rimpatriati con la forza, riducendo il numero dei rifugiati rimpatriabili a 2 milioni.

Vi era, tuttavia, anche un numero considerevole di profughi sotto la tutela degli Alleati che non poteva, o non voleva, tornare ai loro Paesi di origine. Entro l’ottobre del 1946, la Germania si trovò con 3 milioni di persone in più nelle zone occupate rispetto al periodo prebellico. Questi individui avevano cercato la tutela e la cura che non poteva essere fornita dall’inesistente Governo tedesco. Più della metà delle case nella zona di occupazione americana era stata distrutta durante la guerra; il bombardamento di città come Dresda e gli intensi combattimenti che avevano avuto luogo nelle strade di Berlino e Monaco avevano portato alla perdita di appartamenti e case. In totale, la Germania aveva perso oltre il 40% del suo patrimonio immobiliare. Il saccheggio dei terreni agricoli da parte degli eserciti alleati che avanzavano e le vittime liberate del nazismo, in combinazione con il crollo totale dell’economia tedesca, avevano posto gli Alleati di fronte all’arduo compito di ricostruire un Paese devastato dalla guerra con risorse esigue e quasi nessun aiuto da parte della Germania stessa.

I rifugiati che erano affluiti nella zona americana della Germania alla fine della guerra, e vi rimasero dopo il 1945, erano stati inizialmente ospitati in ex campi di concentramento, centri di lavoro forzato, caserme, scuole e case. I luoghi scelti come centri di raccolta alleati erano stati preservati dalle devastazioni derivanti dall’avanzare degli eserciti ed erano dotati dei servizi necessari per la sopravvivenza.

Tutti gli individui presenti in questi centri erano stati alloggiati in base alla loro nazionalità, non prevedendo dei campi separati per gli ebrei, poiché gli Alleati non erano disposti a classificarli come una etnia distinta, insistendo che fare ciò sarebbe stato uguagliare i nazisti. Nella pratica, significava che un ebreo ungherese, baltico o rumeno, solo per citare alcuni casi, era classificato come cittadino straniero, non rientrando nella categoria di “vittima del fascismo”, negandogli le razioni aggiuntive e i benefici delle persone identificate come profughi delle Nazioni Unite, United Nations displaced Persons (UNDPs).

Gli ufficiali del Governo Militare Americano sostenevano che gli Stati Uniti erano una Nazione imparziale e che, come tale, non avrebbe individuato gli ebrei come gruppo distinto. Inoltre, il Governo Militare non voleva mostrare alcun pregiudizio, accogliendo i rifugiati indipendentemente dalla loro nazionalità e religione. Questo spesso significava per gli ebrei continuare a vivere tra i loro nemici, poiché molti individui che avevano richiesto lo status di rifugiato erano in realtà nazisti che avevano abbandonato le uniformi, collaborazionisti, e persone provenienti spontaneamente dall’Europa Orientale in cerca di lavoro in Germania. È stato rilevato che uomini delle SS, della Gestapo, membri del Partito Nazista, volontari polacchi del lavoro, volontari del lavoro russi, soldati jugoslavi si erano trasformati in profughi ed erano entrati nei campi per sfuggire alla detenzione.

La mancanza di personale qualificato e di risorse, unita alla presenza di impiegati neoassunti, impedì inizialmente agli americani di riconoscere le richieste fraudolente dello status di rifugiato. Mentre il Governo americano lavorava per filtrare quegli individui il cui profilo non si adattava alla definizione di rifugiato o profugo, studi recenti hanno dimostrato che un manipolo di criminali di guerra cercò di entrare negli Stati Uniti e in Canada attraverso i centri per i profughi.

Il problema dei profughi aumentò con l’arrivo di diverse migliaia di infiltrati, come gli Alleati chiamavano i nuovi profughi ebrei fuggiti dall’Est dopo il 1946. Gli “infiltrati” si sarebbero presto uniti agli oltre sessantamila ebrei rimasti in Germania nei mesi successivi alla fine della guerra. La maggior parte di questi “infiltrati” era costituita da ebrei dell’Europa Orientale che era sopravvissuta alla guerra al di fuori dei campi di concentramento; mentre alcuni di essi avevano iniziato il loro percorso verso la Germania nei mesi immediatamente successivi alla fine del conflitto, il loro numero era cresciuto rapidamente nel 1946, quando circa 250.000 ebrei dell’Europa dell’Est arrivarono in Germania e in Austria, stabilendosi soprattutto nella zona americana. Queste persone avevano tre distinte esperienze della guerra.

Il primo gruppo era costituito da sopravvissuti ritornati nelle loro città nell’Est, che, resisi conto della perdita dell’intera famiglia e di tutti gli amici, avevano incontrato l’ostilità dei connazionali. La seconda coorte comprendeva partigiani e persone che erano state fisicamente nascoste da amici o da individui pagati per farlo. L’ultimo gruppo, per un totale di circa 140.000 unità, era stata forzatamente spostata dalla Polonia in Russia, dove avevano vissuto per tutto il periodo della guerra in condizioni estremamente difficili.

Sebbene questi gruppi avessero iniziato ad uscire dalla Polonia subito dopo il rimpatrio, il loro numero aumentò progressivamente dopo una serie di pogrom, il peggiore dei quali ebbe luogo in Polonia a Kielce il 4 luglio del 1946, con 47 ebrei morti e più di 50 feriti. La maggioranza di questi ebrei fuggì verso Ovest in Germania, in particolare nella zona americana. Essi si unirono ad un piccolo gruppo di ebrei russi che aveva sempre vissuto in URSS, nonché ebrei ungheresi e rumeni che avevano colto l’occasione creata dalla confusione dell’immediato dopoguerra per fuggire. Questo rapido aumento dell’immigrazione è ben illustrato dalla statistiche raccolte nella zona americana della Baviera, in cui si stima che 40.000 ebrei (registrati e non) si siano stabiliti nei primi mesi del 1946, per arrivare a 142.000 alla fine dell’anno. Si ritiene che circa 6.550 rifugiati ebrei siano arrivati nella zona americana ogni mese nella prima metà del 1946. Tuttavia, questo numero è aumentato di quasi tre volte, con 17.000 nuovi arrivi mensili, dopo il luglio del 1946. Queste ondate migratorie hanno modificato sensibilmente la composizione della presenza ebraica nel Paese, dato che erano in prevalenza originari di Paesi dell’Est Europa e non avevano mai sperimentato la vita nei campi di concentramento o di lavoro.

A differenza di altri gruppi di profughi, gli ebrei non potevano essere validamente rimpatriati, così il loro numero è diminuito soltanto quando sono stati reinsediati al di fuori dell’Europa o quando hanno scelto di tornare a casa.

Gli “infiltrati” erano gli elementi più sani tra i profughi ebrei in Germania. Erano pronti per il futuro sia psicologicamente sia fisicamente, meglio in grado di adattarsi alla nuova condizione integrandosi nella comunità del campo. A differenza dei partigiani e dei sopravvissuti dei campi di concentramento e di lavoro, gli “infiltrati” spaziavano come età dalla più tenera alla più vetusta.

Vi era tra loro un grande numero di intellettuali, e nuclei familiari e comunità che arrivavano nei campi integre.

L’afflusso di questi “infiltrati” portò il numero dei profughi ebrei in Germania a 300.000 unità.

La zona americana era particolarmente attraente per gli ebrei dell’Europa dell’Est poiché dopo la pubblicazione del Rapporto Harrison, di cui parleremo, era l’unica zona in cui gli ebrei avessero dei campi distinti, inoltre, gli Stati Uniti erano il solo Paese che appoggiasse la nascita dello Stato ebraico in Palestina.

I funzionari britannici avevano chiuso la loro zona ai rifugiati dopo le prime settimane dalla fine della guerra; l’emanazione di regole estremamente severe riguardanti la circolazione da e per la zona britannica, nel tentativo di frenare l’immigrazione clandestina, impedì in sostanza ai profughi ebrei di viaggiare al di fuori dell’area e tornare nei campi senza l’autorizzazione. Al contrario, i campi della zona americana in Germania non furono ufficialmente chiusi fino al 1947 ed anche dopo i nuovi “infiltrati” ebrei poterono continuare ad entrare nella zona americana. La pubblicazione del Rapporto Harrison fece temere agli Stati Uniti le veementi reazioni degli ebrei americani se avessero negato l’accesso ai loro correligionari dell’Europa Orientale. Gli inglesi non avevano queste preoccupazioni. Le differenze nella linea politica sono chiaramente illustrate dal numero di profughi ebrei che vivevano in ogni zona; all’inizio del 1946, vi erano 36.000 profughi ebrei legalmente registrati nella zona americana, mentre in quella inglese ve ne erano 16.000, numero che rimase sostanzialmente stabile per tutto il periodo dell’occupazione.

Il primo piano militare degli Stati Uniti per identificare tutti gli sfollati in base alla loro nazionalità e per determinarne l’assistenza in base a quale schieramento fosse appartenuto il loro Paese d’origine fu sottoposto ad un’attenta analisi nell’estate del 1945. Nell’agosto del 1945, il Presidente Truman aveva finalmente risposto alla richiesta degli ebrei americani affinché fosse inviato un rappresentante in Germania al fine di accertare le esigenze degli apolidi e dei non rimpatriabili, in particolare degli ebrei, tra i rifugiati e in quale misura tali esigenze fossero soddisfatte dalle autorità militari, dalle organizzazioni private, nazionali e internazionali. Alla fine, Earl G. Harrison, rappresentante del Comitato Intergovernativo per i rifugiati, fu inviato in Germania per valutare la situazione. Harrison arrivò nel Paese nel luglio del 1945, con un itinerario che avrebbe dovuto informarlo della situazione dei profughi. Questo programma consisteva principalmente in discussioni di alto livello sulla vita dei profughi in Germania, omettendo ogni contatto reale con i centri di raccolta. Tuttavia, il colonnello Richmond, membro del Dipartimento dei profughi del SHAEF, Supreme Headquarters Allied Expeditionary Force, passò queste informazioni al rabbino Abraham Klausner, in passato cappellano militare e uno dei più grandi sostenitori dei profughi nel dopoguerra, che chiese ad Harrison di visitarlo durante il suo viaggio nel Paese. Klausner incontrò Harrison nei campi vicino Dachau, considerati i peggiori centri della zona americana a causa del sovraffollamento e del degrado generale. Harrison fu così turbato da quello che vide da scrivere un messaggio a Henry Morgenthau, Ministro del Tesoro americano, in cui affermava di aver trovato completa conferma dei rapporti inquietanti riguardanti la condizione degli ebrei nella zona dello SHAEF in Germania. Egli concludeva il messaggio auspicando che l’invio del cablogramma in anticipo rispetto al suo ritorno potesse far intraprendere qualche azione affinché almeno un piccolo gruppo di sopravvissuti potesse vedere che essi erano stati veramente salvati e liberati.

La visita di Harrison e la successiva relazione furono due fattori che ebbero un impatto significativo per gli ebrei che vivevano in Germania. Non solo sottolineò la necessità di cambiamenti immediati e drastici riguardo il trattamento e la catalogazione dei profughi ebrei, ma richiese anche il reinsediamento degli ebrei europei sul suolo palestinese.

Harrison sostenne che mentre gli ebrei erano stati liberati militarmente, la loro liberazione reale non era ancora avvenuta. Egli descriveva come i profughi vivevano nei campi, “sotto scorta, dietro filo spinato… in un luogo affollato, spesso in condizioni igieniche scarse e in generale cupi, in completo ozio, senza possibilità, ad eccezione che di nascosto, di comunicare con l’esterno, in attesa, nella speranza di qualche parola di incoraggiamento e di qualche azione in loro favore”1 [trad.it.a]. Secondo Harrison il profugo ebreo poteva guardare fuori dal suo campo, lugubre, spoglio e affollato, e vedere i tedeschi vivere nelle proprie case conducendo una vita normale. Egli affermò che, allo stato attuale, sembrava che stessero trattando gli ebrei come i nazisti, tranne che non li sterminavano. Harrison continuava argomentando che i campi di raccolta avevano come guardie i militari americani, dove prima c’erano le truppe delle SS. Egli si domandava retoricamente se il popolo tedesco vedendo questo comportamento non supponesse che gli statunitensi stessero seguendo o almeno giustificando la politica nazista.

Chiaramente Harrison esagerò alcune delle sue dichiarazioni al fine di sottolineare la necessità di un cambiamento, e le sue osservazioni furono meno che ben accolte dai militari e dal Governo americano. Secondo Harrison, il primo e più importante cambiamento che doveva avvenire era il riconoscimento dello status di ebrei in quanto ebrei. Essi avevano bisogno di essere separati dai membri di altre nazionalità e ricollocati in centri esclusivamente ebraici. Harrison aveva compreso che classificare gli ebrei in quanto ebrei gli permetteva di vivere in campi protetti, facendoli oggetto di un’attenzione maggiore in base ai loro bisogni che erano certamente più grandi di quelli degli altri profughi, non significando, quindi, che essi erano individuati e perseguitati dagli americani allo stesso modo dei nazisti.

L’Ufficio del Governo Militare aveva continuamente negato risposte alle rimostranze dei profughi ebrei e una qualche forma di riconoscimento di un loro gruppo separato e distinto. Gli alleati credevano che una simile linea politica li avrebbe protetti da accuse di segregazione o di trattamento a sfondo razziale dei profughi, quando in realtà li aveva fatti apparire insensibili e inconsapevoli delle particolari esigenze dei profughi ebrei sopravvissuti alla Shoah. I commenti di Harrison erano una condanna dolorosa del fallimento dell’esercito degli Stati Uniti nell’assicurare che i profughi ebrei fossero curati e trattati in un modo adeguato alle circostanze.

Fortunatamente, il Presidente Truman prese molto seriamente i suggerimenti di Harrison, dando subito avvio a dei cambiamenti nella cura, nel controllo e nel trattamento dei profughi ebrei. Sotto la direzione di Truman, il generale Eisenhower iniziò ad attuare un piano per migliorare le condizioni degli ebrei a partire dal 10 agosto 1945.

Egli riferì al Dipartimento di Stato che ogni ebreo che non voleva essere rimpatriato sarebbe stato trasferito in campi di soli ebrei, sul modello del centro di Feldafing, che aveva originariamente agito come centro di raccolta internazionale, ma con il tempo, dopo che i residenti non ebrei erano stati trasferiti in altre strutture, attraverso gli sforzi del rabbino Abraham Klausner e senza nessuna autorizzazione, era divenuto un campo ebraico.

Questi campi sarebbero stati gestiti dall’United Nations Relief and Rehabilitation Administration, UNRRA, con la collaborazione delle organizzazioni ebraiche di aiuto, come l’americana Jewish Joint Distribution Commitee, che fu la principale organizzazione umanitaria benefica attiva nei campi profughi statunitensi. Eisenhower ordinò anche a tutti i suoi ufficiali di requisire dai tedeschi che vivevano nei pressi dei campi le forniture necessarie per portare il tenore di vita all’interno allo stesso livello di quello esterno. Richiese ai suoi ufficiali di visitare regolarmente i campi. Inoltre, su suggerimento del rabbino Stephen Wise, nominò un consulente per gli affari ebraici, un intermediario che avrebbe incontrato i profughi e riferito le loro esigenze e preoccupazioni all’Ufficio del Governo militare. Infine, Eisenhower rimosse tutte le guardie armate dai campi sostituendole con membri della sicurezza interna. Tuttavia, tutti questi cambiamenti ebbero bisogno di tempo per essere implementati e nell’inverno ’45-’46 vi erano ancora ebrei che vivevano in alloggi di basso livello con guardie armate.

Dopo l’incontro con Harrison, Truman inviò una lettera al generale Eisenhower nell’agosto del 1945, affermando che il precedente trattamento dei DP, Displaced Persons, mostrava il fallimento dell’esercito nell’assistere le vittime del nazismo, inoltre, comprovava l’incapacità di costringere i tedeschi a rendersi conto che erano responsabili, dato il loro coinvolgimento nei crimini del recente passato. Il Presidente concludeva la lettera sostenendo di essere sicuro che il generale sarebbe stato d’accordo nel ritenere l’esercito degli Stati Uniti particolarmente responsabile nel trattare con una speciale attenzione le vittime della persecuzione nazista nella zona di competenza.

I cambiamenti che erano stati già implementati avevano di molto migliorato la condizione dei profughi ebrei in Germania, anche se c’era ancora molto da fare al fine di rendere la loro vita sopportabile. Anche se all’OMGUS, Office of Military Government, United States, era stato assegnato il compito di sovrintendere alla cura e al controllo dei DP nella zona americana della Baviera, la carenza dilagante in tutta la Germania e il mancato arrivo di forniture rendeva quasi impossibile soddisfare molti dei bisogni fondamentali dei profughi. Dato che le risorse disponibili in Germania erano tristemente insufficienti per il numero di persone bisognose di aiuto e gli Alleati non erano riusciti ad importare beni sufficienti dai loro rispettivi Paesi, non potevano rifornire adeguatamente tutti i rifugiati sotto la loro tutela. Questa situazione fu aggravata dall’afflusso di milioni di tedeschi etnici espulsi dai loro ex Paesi di residenza e dalle centinaia di migliaia di profughi che non potevano o non volevano essere rimpatriati.

È opportuno soffermarsi brevemente sulla situazione economica della Germania dopo la fine del conflitto. John McCloy, capo della Commissione di controllo degli Stati Uniti in Germania, riassunse lo stato del Paese alla fine della guerra dicendo che “vi è un completo collasso economico, sociale e politico…la cui portata è senza precedenti nella storia a meno che non si vada indietro al crollo dell’impero romano”2 [trad.it.a]. Inizialmente, nell’ambito del Piano Morgenthau, la Germania sarebbe stata spogliata dell’apparato militare e industriale, mentre gli Alleati avrebbero lavorato per rieducare le masse. La politica delle tre D in inglese, smilitarizzazione, denazificazione, deindustrializzazione, era stata originariamente istituita per convincere i tedeschi della loro sconfitta. Molti funzionari americani avevano sostenuto che gli errori commessi a Versailles nel 1918, in particolare il fatto che gli Alleati non erano stati in grado di convincere i tedeschi della loro condotta sbagliata e della sconfitta, non sarebbero accaduti di nuovo. Gli americani non avevano occupato la Germania a scopo di liberazione come avevano fatto per altri Paesi come la Francia, il Belgio, e i Paesi Bassi, ma perché era stata sconfitta. Era essenziale che i tedeschi realizzassero la loro sconfitta totale, i torti che avevano commesso contro il mondo, e la punizione a causa di questi crimini. Secondo il Ministro del Tesoro, Henry Morgenthau, e molti altri, la mancanza di una punizione e della comprensione della loro sconfitta da parte dei tedeschi era stato uno dei principali fallimenti degli Alleati alla fine della Prima Guerra Mondiale e aveva permesso alla Germania di far deflagrare il Secondo conflitto.

I tedeschi dovevano essere sottoposti ad un basso tenore di vita per aiutarli a capire la loro perdita. Per questa ragione, la produzione industriale fu gravemente limitata da un Piano economico istituito nel marzo del 1946 e la Wermacht fu sciolta nell’agosto dello stesso anno. Questo Piano fu ben presto sottoposto a severe critiche poiché le riduzioni economiche e la perdita di terreni agricoli tedeschi a favore dell’URSS faceva sì che fossero gli Alleati a sopportare il costo della ricostruzione e dell’alimentazione dei tedeschi e dei profughi all’interno del Paese.

Nel 1947 l’economia europea era in uno stato di crisi in quanto i sistemi produttivi di molti Paesi stavano iniziando a soffrire la perdita del mercato tedesco, che prima della guerra era un referente importante per l’Europa Centrale e Orientale. Finché la Germania fosse rimasta inattiva dal punto di vista produttivo, la ripresa economica del resto del continente sarebbe stata impossibile.

Le Forze americane non avevano in programma un’occupazione superiore ai due anni creduti necessari dal Governo affinché il Paese funzionasse senza la loro supervisione. Mentre questa era la politica ufficiale americana, e la diminuzione costante delle forze militari rientrava in questa strategia, gli americani avrebbero continuato a controllare il Governo semi-sovrano tedesco fino al 1952. Realizzata l’impossibilità di un ritiro immediato e compreso che lasciare la Germania in una condizione di distruzione e impoverimento avrebbe potuto spingerla nuovamente verso il nazismo o peggio, verso il comunismo, spinse i funzionari americani a rimanere a lungo sul territorio tedesco. Questo portò gli americani, insieme con l’Inghilterra, a ricostruire la pubblica amministrazione, le comunicazioni, il sistema giuridico, le forze di polizia e i servizi civili così come doveva essere fisicamente ricostruito un Paese ridotto in macerie.

Mentre il rapporto Harrison trasformò le condizioni di vita dei profughi ebrei nella zona americana, la maggioranza degli ebrei del Paese continuò a vivere all’interno dei confini degli ex campi. L’80% dei profughi ebrei scelse di vivere nei campi sentendosi in questi luoghi più protetti dai tedeschi. Questo senso di sicurezza era molto importante per i sopravvissuti all’Olocausto, che soltanto in centri protetti ebraici potevano cercare di ricostruire le loro vite spezzate. Gli ebrei entravano nelle strutture per DP credendo che i loro parenti fossero morti o che si sarebbero riuniti più facilmente ai loro cari sopravvissuti se fossero stati in questi campi.

Sebbene gli americani avessero iniziato a riformare le strutture DP dopo l’agosto del 1945, gli sfollati avevano continuato a vivere nelle caserme, nelle scuole e nei campi di lavoro come prima del rapporto Harrison. Come tali, queste residenze avevano un bassissimo standard qualitativo, inoltre, avevano subito dei danni durante la guerra ed erano estremamente sovraffollate.

Anche dal punto di vista sanitario la situazione dei profughi ebrei era difficile; infatti, i rischi per la salute abbondavano in quasi tutti i principali centri del Paese poiché l’uso precedente di molti di questi siti come campi di lavoro e caserme durante la guerra, in combinazione con la fretta con cui erano stati lasciati dai precedenti occupanti, faceva sì che le condizioni di vita nei centri DP fossero spesso insalubri. I requisiti igienici di base mancavano e le strutture erano state originariamente progettate per soli uomini, non per donne e bambini. Ciò comportava che lo smaltimento dei rifiuti, i servizi igienici e i servizi per lavarsi erano insufficienti e inadeguati per il numero di persone che si trovavano in questi centri.

Soltanto l’intervento dei funzionari dell’UNRRA, lo United Nations Relief and Rehabilitation Administration, fece sì che fossero eseguite delle opere di modernizzazione di tali strutture.

Dal punto di vista nutrizionale, anche se le razioni avevano un apporto calorico sufficiente, la mancanza di cane fresca e verdure faceva sì che la dieta dei profughi ebrei fosse priva di quelle vitamine e minerali di cui avevano bisogno per rimettersi in forze dopo la gravissima denutrizione a cui erano stati sottoposti dai nazisti.

La drastica riduzione degli stanziamenti per il Governo degli Stati Uniti in Germania, che includeva un decremento del numero dei soldati della zona americana, comprendeva anche gli sforzi dell’OMGUS per diminuire le razioni per i DP. Questo comportamento era volto a limitare il numero degli “infiltrati” nei campi. Una simile situazione continuò fino al 1947, quando i profughi ebrei, ed anche i non ebrei, si rivolsero all’unico mercato funzionante e disponibile in Germania: il mercato del popolo, altrimenti conosciuto come seconda economia o mercato grigio.

Nel gennaio del 1946, 36.000 profughi ebrei avevano fatto della zona americana in Baviera la loro casa temporanea, numero destinato a crescere progressivamente fino a 142.084. La Germania meridionale ospitava la maggioranza dei profughi ebrei, avendo i tre più grandi campi esclusivamente ebraici, Föhrenwald, Feldafing, e Landsberg. Essi sentivano di avere guadagnato una sorta di autonomia, iniziando a formare i propri comitati del campo, le forze di polizia e i vigili del fuoco; inoltre, crearono una ricca vita culturale, con la nascita di giornali e scuole, e attività di intrattenimento.

La rinascita di una vita normale in questi campi ebraici fu merito dell’attivismo organizzativo e politico degli ebrei sopravvissuti, che non furono affatto dei soggetti passivi di fronte al Governo Militare Alleato, ma si impegnarono per essere riconosciuti come interlocutori da parte delle Autorità statunitensi. Subito dopo la fine del conflitto, fu chiaro agli ebrei superstiti che potevano superare la rabbia e la frustrazione che provavano soltanto coalizzandosi intorno a leader che sentivano propri e che potevano essere riconosciuti come rappresentanti eletti di un gruppo nazionale separato. Le maggiori discussioni vertevano sulla necessità di una rappresentanza complessiva che fosse in grado di proteggere gli interessi vitali ebraici. Per questa ragione la proposta del rabbino Klausner di indire un incontro di tutti i rappresentanti dei campi della Baviera incontrò l’approvazione generale e il consenso del Governo Militare Americano. 41 rappresentanti si riunirono a Feldafing il 1° luglio del 1945 e si accinsero a creare un corpo elettivo che avrebbe avuto la funzione di rappresentante ufficiale dei sopravvissuti. Feldafing era l’unico campo ebraico in Baviera e doveva la sua esistenza agli sforzi del suo comandante di origini ebraiche, il tenente Irving Smith. L’attenzione alla salute, le razioni adeguate di cibo e un ragionevole confort erano caratteristiche che attrassero ben presto migliaia di ebrei liberati, facendo di Feldafing il più grande campo dell’area. Per questo era il luogo più adeguato per la Conferenza.

I partecipanti concordarono che il primo obiettivo era la costituzione di un effettivo corpo rappresentativo; essi erano abbastanza divisi a causa della loro diversa appartenenza politica. Per esempio, il Dr. Rosenthal, che rappresentava il gruppo affiliato al Bund, riteneva che i suoi membri intendessero ritornare ai loro Paesi di origine e per questo non avrebbero lavorato per un’istituzione dichiaratamente sionista. Con il termine tedesco Bund, che significa associazione, si è soliti indicare in forma abbreviata il movimento socialista ebraico Algemeiner Jidisher Arbeterbund in Lite, Poilen un Russland (espressione jiddisch che significa Federazione generale dei lavoratori ebrei in Lituania, Polonia e Russia). Il Bund fu fondato a Vilna nel 1897 soprattutto come sindacato operaio, ma in seguito svolse una funzione di vero e proprio movimento politico. Tenace avversario del sionismo, si batteva per la salvaguardia della lingua jiddisch e per i diritti degli operai ebrei nell’Europa orientale. Mentre in Russia, nel 1921, confluì nel partito bolscevico, in Polonia continuò a esercitare un importante e autonomo ruolo fino all’invasione nazista.

Egli suggerì quindi la fondazione di un’organizzazione non politica che si identificasse con i bisogni immediati dei sopravvissuti. La maggioranza sionista fu d’accordo sul fatto che la nuova istituzione fosse universale nella sua composizione e nei suoi obiettivi, ma al contempo insistette sull’importanza di Eretz-Israel per la salvezza dei sopravvissuti in particolare e per il futuro del popolo ebraico in generale. L’Associazione degli ebrei sopravvissuti nella zona occupata dagli americani in Baviera avvenuta a Feldafing stabilì che il suo compito primario fosse rappresentare e proteggere i superstiti ebrei. Allo stesso tempo, una clausola prometteva una stretta collaborazione con il movimento sionista in Baviera, e per questo motivo vi fu una notevole sovrapposizione nella leadership di entrambi i gruppi allora e in seguito. A un livello più pratico fu deciso che i rappresentanti dei campi (in numero proporzionale ai loro membri) avrebbero costituito il plenum dell’Associazione e avrebbero eletto un consiglio di 21 membri per gestire la linea politica e un Comitato esecutivo di 8 membri per attuarla. L’incontro di Feldafing si chiuse con la formulazione di una risoluzione indirizzata agli Alleati in vista della Conferenza di Potsdam, in cui si esprimeva profondo apprezzamento per la vittoria alleata, sottolineando il contributo ebraico allo sforzo bellico, e chiedendo che il Libro Bianco inglese del 1939 fosse cancellato e che l’immigrazione ebraica in Palestina fosse priva di limitazioni. Pochi giorni dopo il Comitato esecutivo si trasferì in modo permanente negli Uffici del Museo Tedesco di Monaco. Furono istituiti sette dipartimenti riguardanti i più urgenti bisogni dei profughi, che si occupavano di rimpatri, cure mediche, cibo, vestiario e alloggi.

Dal punto di vista politico, due questioni interconnesse occuparono l’attenzione del Comitato: la necessità di costruire un’organizzazione veramente efficace e ottenerne il riconoscimento come rappresentante ufficiale di un gruppo nazionale ben distinto da parte dell’esercito americano. Dopo che il rabbino Klausner aveva fallito nel suo tentativo di ricevere qualche forma di riconoscimento, il Comitato cercò l’aiuto di Joseph Dunner, un ufficiale ebreo che supervisionava le pubblicazioni dei giornali a Monaco. Dunner partecipò alle prime sessioni di lavoro del Comitato e sperava di essere in grado di portare le sue richieste alla personale attenzione del generale Eisenhower. Chain Ben-Asher e Aryeh Simon, gli emissari della Brigata Ebraica che stavano visitando i campi della Germania dagli inizi di luglio, spronarono il Comitato ad aumentare le sue iniziative. Alcune proposte erano già state messe in pratica: alcuni rappresentanti si erano diretti al campo di Bergen-Belsen per prender contatto con i sopravvissuti; altri avevano viaggiato in Polonia per assistere nella ricerca dei congiunti dei superstiti; mentre un terzo gruppo si era recato nel sud Italia in cerca di un modo per raggiungere la Palestina. I rappresentanti della Brigata Ebraica sentivano che era giunto il tempo per iniziative più eclatanti, in grado di catturare l’attenzione mondiale: la Gran Bretagna era in periodo di elezioni; Earl Harrison, che aveva incontrato Simon, stava visitando i campi profughi; l’esecutivo sionista stava per riunirsi a Londra per la prima volta dopo la fine della guerra; lo stesso esecutivo dell’UNRRA aveva in programma un incontro. Era un momento propizio per una campagna sul tema dei profughi ebrei sopravvissuti e per esercitare pressione sull’Inghilterra affinché rivedesse il Libro Bianco del 1939 che limitava severamente l’immigrazione ebraica in Palestina. I rappresentanti della Brigata Ebraica propendevano per una Conferenza dalla base molto ampia, che comprendesse anche le comunità della zona britannica e delle altre zone di occupazione non ancora rappresentate nel Comitato. Questo avrebbe aiutato il Comitato nell’ottenere pubblicità e credibilità nelle comunità dei sopravvissuti della Germania. Due fatti ebbero un importante significato per i sopravvissuti: il viaggio e il conseguente rapporto di Harrison e, internamente, la decisione per una Conferenza rappresentativa molto ampia.

La Conferenza dei rappresentanti dei superstiti ebrei in Germania, che si tenne a Sant’Ottilien il 25 luglio del 1945, accolse 94 delegati che rappresentavano circa 40.000 ebrei sparsi nei 46 centri della Germania e dell’Austria. Gli organizzatori, consapevoli dell’importanza delle pubbliche relazioni, invitarono giornalisti e ufficiali americani a partecipare alla cerimonia di apertura. I rapporti dei delegati e le risoluzioni si focalizzarono su due temi: libera e immediata immigrazione in Palestina e, in vista di questa, preparativi per un più lungo soggiorno in Germania. A questo riguardo, la Conferenza raccomandava di concentrare gli ebrei in campi separati, dotati di autonomia interna. Un’ulteriore risoluzione chiedeva la riunione di tutte le testimonianze e delle prove che avrebbero potuto aiutare a porre sotto processo i criminali nazisti; questo materiale sarebbe stato trasportato successivamente in Palestina e sarebbe servito come pietra miliare per un memoriale per le distrutte comunità ebraiche europee. Inoltre, la Germania era chiamata a compensare le vittime per le disabilità fisiche e la perdita delle proprietà. La Conferenza si concluse con una cerimonia simbolica nel Bürgerbraükeller a Monaco; qui, tra rotoli sconsacrati della Torah, 20 dei delegati riuniti in assemblea lessero una dichiarazione ufficiale che chiedeva uno Stato indipendente e uguaglianza di diritti per il popolo ebraico nel mondo. La vivacità, il coraggio e la vitalità di coloro che parteciparono alla Conferenza impressionarono fortemente gli osservatori stranieri.

Il Comitato centrale, che rimase largamente fedele alla base politica determinata a Sant’Ottilien, fu riconosciuto come ufficiale rappresentante degli ebrei nella Germania occupata. Questi sviluppi, considerati insieme, resero possibile per i profughi ebrei avere un impatto sugli eventi che li riguardavano in Germania e altrove.

Nella seconda metà del 1945, il Tsentral Komitet fun di Bafreite Yidn in Daytshland Comitato centrale degli ebrei liberati in Germania (Zentral Komitet nella traslitterazione del tempo e per questo abbreviato in ZK) – grazie alla velocità degli eventi avviatasi dopo la Conferenza di Sant’Ottilien continuò ad espandere le sue attività ed a disegnare la sua struttura organizzativa. Lo ZK si considerava il rappresentante democraticamente eletto dei superstiti ebrei, responsabile per la loro riabilitazione mentre si trovavano in Germania, impegnato per accelerare la loro partenza per la Palestina o verso qualsiasi altro luogo: lo ZK in virtù della sua composizione e dei suoi articolati obiettivi si vedeva come un’istituzione sionista che si prendeva cura di tutti. Ciò significava essere la voce dei superstiti ebrei di fronte all’Esercito americano e all’UNRRA e combattere per un riconoscimento ufficiale degli ebrei come popolo, per campi separati con autonomia interna e per un aumento dei servizi e delle forniture. I membri dello ZK erano in costante contatto con altre istituzioni internazionali, ebraiche e non, per promuovere e esplorare altre possibilità di emigrazione. Furono mantenuti contatti regolari con la Croce Rossa Internazionale e con le autorità tedesche locali.

Le funzioni svolte dallo ZK erano molte e diversificate: il lavoro di ricerca dei congiunti dei sopravvissuti; i servizi medici furono forniti a Sant’Ottilien e dall’ala ebraica dell’ospedale di Gautering, mentre i pazienti affetti da tubercolosi erano curati nel sanatorio di Babenhaunsen; l’apertura di scuole in tutti i maggiori campi e l’istituzione di numerosi corsi; una grande energia fu spesa per ottenere più cibo, un vestiario decente e posti meno affollati in cui vivere; nella sfera culturale è da segnalare che nel novembre del 1945 furono intrapresi i primi passi per istituire una Commissione storica a cui fu poi affidato il compito di raccogliere testimonianze personali, documenti, fotografie, libri e oggetti-ricordo che sarebbero potuti servire sia per gli storici sia per portare di fronte alla giustizia i criminali. Lo ZK impostò dei dipartimenti aggiuntivi che si occupavano di economia, educazione e cultura, emigrazione, salute, questioni religiose e, più tardi, si dotò di un ufficio legale e di un revisore generale dei conti.

Data l’importanza, è opportuno soffermarsi sull’attività svolta nell’ambito educativo all’interno dei campi. Le scuole all’interno dei campi ebbero una funzione fondamentale; si calcola che nel dicembre del 1945 vi fossero 26.506 bambini e ragazzi, di età compresa tra 1 anno e 17 anni, la maggior parte dei quali aveva perso inevitabilmente anni di scuola a causa delle persecuzioni e della guerra, non sapendo più né leggere né scrivere, quindi, fu intrapresa un’attenta opera di recupero che prevedeva, in vista dell’emigrazione negli Stati Uniti o in Israele, l’insegnamento dell’inglese e dell’ebraico. I problemi che queste scuole dovevano affrontare erano molto gravi: mancanza di fondi, di insegnanti qualificati e di classi spaziose. Nella seconda metà del 1946, il dipartimento dell’educazione dello ZK preparò un curriculum per i primi cinque gradi dell’istruzione primaria e istituì un ispettorato per guidare gli insegnanti nel loro lavoro e nell’implementazione del programma di studio. Nel novembre del 1946 si tenne una Conferenza regionale a Stoccarda per 44 insegnanti, seguita da un seminario per gli educatori della scuola dell’infanzia. Manuali in ebraico per lo studio della matematica, della letteratura, delle feste ebraiche, della storia e della geografia della Palestina furono distribuiti molto rapidamente nella zona di occupazione. Alla fine del 1946 il dipartimento dell’educazione e della cultura della JOINT stimava che dei 15.000 bambini di età compresa tra i 6 e i 17 anni circa 10.000 fossero registrati nelle scuole dei campi, al contempo 581 ragazzi frequentavano dei corsi nelle università tedesche.

I campi ebraici seppero dare ai loro abitanti un senso di normalità in una situazione anormale.

I centri rimasero sotto il diretto controllo dell’OMGUS fino al 15 novembre 1945, quando la gestione fu trasferita all’UNRRA.

Dopo il trasferimento della competenza sui campi al Governo bavarese e al Governo Federale Tedesco nel 1951, i campi per profughi ebrei rimasero esclusivamente centri ebraici. Le autorità tedesche garantirono anche che le feste e i rituali religiosi sarebbero stati rispettati senza alcuna interferenza da parte degli ufficiali tedeschi.

Dato lo stretto contatto intercorso tra i profughi ebrei e gli americani è opportuno soffermarsi su questa relazione.

Il Governo Militare Americano lavorò instancabilmente per combattere l’antisemitismo e il commercio illegale, in ogni modo, i soldati americani costituivano una parte significativa dei partecipanti ad entrambe queste attività alla fine degli anni Quaranta. Nel 1946, molti operatori umanitari ebrei, così come profughi e ufficiali dell’OMGUS, notarono un incremento dell’ostilità tra i soldati americani e i rifugiati ebrei.

Questo deterioramento delle relazioni tra le autorità d’occupazione e i DP non era connesso alla politica generale della zona americana, ma piuttosto derivava dall’introduzione di nuovi soldati nell’area. I nuovi militari non erano dell’esercito di combattimento, quindi non avevano visto le atrocità commesse dai tedeschi nei campi di concentramento e di sterminio in tutta Europa e non avevano partecipato alla liberazione degli ebrei sopravvissuti.

L’esperienza della liberazione aveva condotto la maggior parte dei soldati americani a prendersi cura dei superstiti ebrei con simpatia e comprensione, dati i crimini che erano stati commessi contro di loro. In aggiunta a questi sentimenti di simpatia per i sopravvissuti della Shoah, dal dopoguerra fino al 1 ottobre del 1945 vi era divieto di fraternizzazione con i tedeschi, Legge non motivata soltanto da esclusivi motivi di sicurezza ma anche dalla volontà di punire i tedeschi. Tuttavia, si deve notare come molti soldati non fossero disposti ad interagire con i tedeschi a causa delle loro esperienze della guerra.

Con la rimozione delle restrizioni alla fraternizzazione si riscontrò un aumento delle relazioni tra tedeschi e americani e contestualmente una miscela dell’antisemitismo esistente tra tedeschi e americani.

Molti funzionari americani, così come un certo numero di operatori umanitari ebrei, avevano notato che il continuo contatto con i tedeschi aveva portato ad un aumento delle espressioni ostili e antisemite da parte delle truppe americane. Già nel 1946, gli operatori dell’UNRRA e altri osservatori esterni segnalavano che alcuni soldati americani avevano adottato l’atteggiamento antisemita del popolo tedesco con cui entravano in contatto.

Entro la fine degli anni Quaranta, le forze di combattimento e liberazione che avevano combattuto i nazisti e visto le prove dell’antisemitismo tedesco erano state autorizzate a rientrare negli Stati Uniti, mentre i soldati inviati per ricostruire la Germania non erano a conoscenza dei crimini tedeschi contro l’umanità al di là delle notizie che avevano visto al cinema. L’esercito istituì nell’ottobre del 1945 un programma per informare i soldati sui gruppi di cui avrebbero dovuto prendersi cura.

Nella pratica questi giovani soldati incontravano ragazze tedesche carine e accomodanti, e vedevano dei cittadini dalle buone maniere che vivevano in case pulite, in netto contrasto con i profughi ebrei, che apparivano antigienici, destabilizzanti, e ostili; risultava difficile per questi giovani soldati ricordare chi aveva perpetrato la guerra e di chi avrebbero dovuto prendersi cura perché vittime di quel conflitto.

Alcuni osservatori del tempo hanno sostenuto diverse motivazioni alla base del deterioramento delle relazioni tra soldati americani e DP ebrei, motivazioni attribuite al modo in cui i soldati percepivano i profughi ebrei. Già dal 1946, leader ebrei come il Dottor Samuel Gringauz iniziò a dare lezioni ai nuovi soldati sui DP e sui problemi che avevano affrontato. In questi programmi di studio, i leader ebrei parlavano anche dei problemi dei soldati americani nelle relazioni con i profughi ebrei, come la resistenza ebraica agli ordini emessi da chiunque fosse in uniforme o la convinzione sviluppata dai superstiti nei campi della necessità di agire al di fuori della legge per sopravvivere.

Il rabbino Philip Bernstein scrisse un articolo, pubblicato sui giornali delle unità di occupazione, sui profughi ebrei per contribuire ad una maggiore conoscenza delle loro preoccupazioni e della loro personalità. Sebbene questi articoli e seminari avrebbero dovuto teoricamente aiutare, era sufficiente spesso un unico incontro con un profugo ebreo perché tutto ciò che era stato appreso fosse cancellato. Un abitante del campo profughi di Feldafing ricordava come “essi [i soldati americani] abbiano incontrato gente selvaggia priva di tatto, priva delle buone maniere di base e delle regole elementari di condotta…e quando si sono incontrati ebrei di questo genere tutte le spiegazioni che parlavano di loro in precedenza sono state annullate e sono scoppiate come bolle di sapone”3 [trad.it.a].

Il rabbino Bernstein aveva osservato che le politiche prescritte dagli alti apparati del Governo Militare erano eccellenti, ma i veri problemi sussistevano sul campo; infatti, la Legge e l’ordine militare erano fonte di confusione per i DP, che non erano abituati alle procedure militari. La comunicazione si ruppe quando a questa situazione si aggiunse l’estraneità del profugo ebreo nella mente del soldato. Secondo Bernstein “il giovane soldato americano ha difficoltà a capire il DP. Il suo modo di pensare e i suoi modelli di comportamento gli sono estranei. Con il passare dei tempo, i profughi divengono sempre più gravosi per coloro che sono responsabili della loro cura. C’è indubbiamente una sottile, malsana influenza tedesca, che probabilmente è in crescita.”4 [trad.it.a].

Tuttavia, questa mancanza di comprensione non è stata l’unica causa delle relazioni ostili tra ebrei e soldati americani; infatti, molti militari erano già antisemiti quando giunsero in Europa, altri erano immaturi e gioivano del potere che potevano esercitare sugli altri.

Il deterioramento delle relazioni tra soldati americani e profughi ebrei divenne così preoccupante che l’esercito decise di condurre uno studio tra i suoi soldati per esaminare le relazioni tra tedeschi e americani, nonché il razzismo e l’antisemitismo tra le truppe. Su 1.790 militari intervistati, il 22% riteneva che i tedeschi avessero partecipato alla soluzione finale mentre il 19% pensava che i tedeschi fossero la causa della Seconda Guerra mondiale. Nonostante gli sforzi americani per educare i soldati sulla condizione dei DP e sui mali dell’antisemitismo, le relazioni tra gli ebrei e i soldati americani in Germania continuarono a deteriorarsi al punto che DP ebrei furono presso assimilati ai criminali nella mente di molti militari americani. I raid condotti dalle forze americane alla ricerca dei beni del mercato nero erano divenuti eventi normali nei centri DP ebraici. Per molti profughi ebrei queste ricerche erano soltanto una prova ulteriore che l’esercito americano stava favorendo i tedeschi rispetto agli ebrei. Persino per il soldato più tollerante la situazione dei DP era vista come un fastidio, un dovere che i militari americani non erano ben attrezzati per gestire, ma soprattutto una situazione con cui non avrebbe dovuto avere niente a che fare.

La percezione di un eccessivo coinvolgimento degli ebrei negli affari illegali era comune nella mentalità bavarese ed iniziò ad avere una forte presa anche su quella dei soldati statunitensi. Ciò avvenne prevalentemente dopo il 1948, quando gli Alleati lavorarono per ristabilire il pieno funzionamento dell’economia tedesca, al fine di garantire che la Germania divenisse un alleato affidabile, capitalista e democratico contro l’URSS. La convinzione che la criminalità ebraica minacciasse i piani alleati condusse ad un’ulteriore frattura nei rapporti tra i profughi ebrei e gli ex liberatori dopo il 1948.

Da un lato, gli americani credevano che tutti coloro che vivevano sotto loro responsabilità dovessero obbedire alla Legge, ma in realtà questo era impossibile finché non furono in grado di sostenere i civili sotto la loro tutela. Ciò è dimostrato dal libro di memorie di Simon Schochet, in cui affermava che, pur rendendosi conto che la polizia militare agiva in base a degli ordini per impedire le operazioni del mercato nero, esso rappresentava, data la situazione economica della Germania, l’unico mezzo di sussistenza non solo per gli ebrei ma anche per i tedeschi.

Data la crisi economica, ebrei e tedeschi erano costretti ad interagire giornalmente. Lo scambio sul mercato grigio è stato spesso il primo contatto avuto con i tedeschi dopo il campo di concentramento per molti sopravvissuti dell’Olocausto. Nel complesso, la maggior parte degli ebrei aveva dei sentimenti di amarezza verso le persone ritenute responsabili dello sterminio di sei milioni di ebrei.

Molti profughi ebrei hanno sostenuto che c’era poca comunicazione tra loro e i vicini tedeschi, non estendendosi oltre gli scambi commerciali. In effetti, c’erano costanti e intensi contatti tra gli ebrei e i loro vicini, ma questi contatti non erano considerati scambi sociali, ma piuttosto interrelazioni necessarie per entrambe le parti. Tali scambi costringevano le due parti a cooperare su una base giornaliera durante un periodo in cui nessuna delle due era entusiasta di parlare e vivere insieme, e meno ancora lavorare. Gli ebrei e i tedeschi avevano bisogno di interagire per sopravvivere.

Dopo il gravissimo incidente nel campo ebraico di Stoccarda nel marzo del 1946, quando 200 poliziotti tedeschi con dei cani entrarono nel campo sparando sulla folla dei profughi ebrei e uccidendo un sopravvissuto alla Shoah, fu interdetto alla polizia tedesca l’accesso ai centri per profughi ebrei.

La mancata giurisdizione della polizia tedesca sui campi significava la totale separazione dei profughi ebrei dal sistema giuridico tedesco; i profughi ebrei erano soggetti alle stesse Leggi di tutti gli altri cittadini, ma non potevano essere arrestati dalla polizia tedesca, non potevano essere trattenuti in carceri tedesche, e non potevano essere giudicati da tribunali tedeschi. Questi profughi sarebbero invece dovuti essere tenuti in custodia militare o imprigionati nel carcere del campo fino al processo, che per Legge doveva svolgersi entro ventiquattro ore. L’estensione del divieto della custodia tedesca anche alle prigioni costrinse gli americani ad istituire dei centri di detenzione per DP a Berlino, a Brema, e in altri tre stati federali nella zona americana di occupazione. Gli istituti tedeschi non potevano mai essere usati per ospitare DP ebrei, nonostante il sovraffollamento delle carceri. L’Ufficio del Governo Militare fu incaricato anche di creare strutture a lungo termine per coloro che subivano una condanna superiore all’anno. Lo status extralegale dei profughi ebrei continuò fino al trasferimento del controllo di tutti i campi dagli americani alla Germania nel 1951, portando ad un aumento delle tensioni tra ebrei e tedeschi.

Tuttavia, è importante evidenziare che anche se occasionalmente vi erano rapporti amichevoli tra ebrei e tedeschi, e molti ebrei e tedeschi avrebbero potuto descrivere i loro sentimenti verso l’altro come ambivalenti, sussisteva una forte corrente sotterranea di odio tra i membri di entrambe le parti.

Con l’occupazione furono varate diverse leggi che stabilivano ciò che un tedesco poteva e non poteva dire in pubblico; la Legge bavarese quattordici all’articolo uno stabiliva che ogni espressione di odio su base razziale, religiosa o nazionale fosse illegale, tale norma fu applicata molto severamente nei primi anni di occupazione.

L’odio verso gli ebrei non era scomparso con la fine del nazismo nel 1945; per esempio il sostantivo Jude continuò ad essere utilizzato nei rapporti di polizia anche dopo la Legge del settembre del 1945 che aboliva la categorizzazione razziale. Questo termine compariva ancora nei rapporti degli ufficiali tedeschi anche dopo che la Legge dell’ottobre del 1946 ne ribadiva il divieto, infatti, occasionalmente può essere trovato anche in relazioni del 1950.

Scrivendo dell’antisemitismo in Germania nel biennio 1946-1947, Boris Sapir ha osservato che “fintanto che le truppe alleate rimangono in Germania, anche i nazisti più rabbiosi cercheranno di controllarsi”5 [trad.it.a]. Naturalmente tra i profughi ebrei vi era la consapevolezza che le truppe americane non potessero rimanere in Germania per sempre.

In pochi mesi dopo la fine del conflitto, erano apparse di nuovo delle svastiche sui muri degli edifici, le finestre di case ebree erano state distrutte e cimiteri profanati in tutta la Baviera. Studi condotti in tutto il Paese hanno dimostrato che quattro tedeschi su dieci intervistati avrebbero partecipato, o almeno tollerato, atti pubblici contro gli ebrei. Quattro tedeschi su dieci ammisero di essere razzisti o nazionalisti, facilmente suscettibili all’incitamento antisemita. Nell’opinione pubblica era diffusa la diceria che i rifugiati ebrei uccidessero le ragazze cristiane per vendere la loro carne al mercato nero. Mentre ci sono stati pochi attacchi palesi contro gli ebrei, le tensioni tra le due parti iniziarono a crescere, e gli ebrei erano di nuovo sottoposti a canzoni di scherno, minacce e abusi. La situazione era talmente preoccupante che il Governo Militare iniziò il monitoraggio di tali atti ed emise degli avvisi sull’aumentare delle tensioni nella zona americana della Baviera. Le Forze Alleate non erano certamente le uniche ad essere a conoscenza dei crescenti sentimenti antisemiti della popolazione della Baviera, infatti, quasi ogni pubblicazione e corrispondenza ebraica-americana riguardava la condizione degli ebrei in Germania, e ogni incontro di associazioni ebraiche prevedeva una discussione sulle manifestazioni di antisemitismo. Anche la stampa ebraico-tedesca discuteva del tema dell’antigiudaismo nel Paese e Der Veg pubblicò un articolo nel febbraio del 1947 in cui affermava che “la popolazione tedesca nella sua maggioranza è ancora antiebraica, e anche i funzionari di nuova nomina esitano a portare aiuto agli ebrei”6 [trad.it.a]. Mentre la popolazione della Germania non era molto soddisfatta dei suoi vicini ebrei, sono stati spesso i profughi ebrei dell’Europa dell’Est ad essere presi di mira. Molti tedeschi si lamentavano che la Germania era stata gravata da una sovrabbondanza di ebrei “cattivi”, animati da desideri immorali, criminali e pieni di odio. Un detto popolare molto conosciuto nel dopoguerra recitava: “Che pasticcio ha fatto il Führer, ha cacciato via i nostri buoni ebrei [tedeschi], ed ora abbiamo tutti questi cattivi ebrei [dell’Europa Orientale].

La popolazione capì che ogni espressione di antisemitismo sarebbe incorsa in dure punizioni da parte degli americani, al contempo, comprese che poteva scagliarsi contro i profughi ebrei stranieri invece di esprimere odio verso gli ebrei tedeschi.

Attraverso i rapporti stilati dagli ufficiali americani è possibile osservare come ancora nel dopoguerra vi fossero molti tedeschi che credevano che la soluzione della Judenfrage fosse la completa scomparsa degli ebrei dal Paese, in pratica condividevano le stesse convinzioni di Hitler.

Le Forze occidentali, e in particolare il Governo Militare americano in Baviera, lavorarono nelle rispettive zone per combattere l’antisemitismo e “rieducare” i suoi sostenitori. Tuttavia, era chiaro dalla fine degli anni Quaranta che i loro tentativi non avevano avuto successo. Questi programmi di rieducazione erano iniziati nel 1945, rivolgendosi agli individui più radicalizzati. Questi sforzi ebbero inoltre vita breve, poiché successivamente il Governo militare americano tentò di insegnare a tutti i livelli della società tedesca i valori della democrazia attraverso i centri americani, il baseball, e le scuole, abbandonando in tal modo i programmi di denazificazione.

Molti funzionari americani erano sconcertati nello scoprire i risultati delle indagini dell’esercito americano condotte nel 1946, secondo le quali il 18% della popolazione tedesca era intensamente antisemita, e che un ulteriore 21% si considerava moderatamente antisemita. Mentre questi risultati non necessariamente si traducevano in atti ostili pubblici contro gli ebrei, era chiaro che l’antisemitismo era profondamente radicato nel popolo tedesco.

Michael Berkowitz sostiene che molti tedeschi accettavano le affermazioni sulla criminalità insita in tutti gli ebrei perché avevano già interiorizzato tali paradigmi prima dell’era nazista. Sapir ha osservato che con la difficile situazione dilagante in tutto il Paese “l’eredità velenosa lasciata da Goebbels continuava a dominare le menti della popolazione”7.

Questi paradigmi hanno fatto sì che i tedeschi razionalizzassero il destino degli ebrei durante il nazismo, ritenendo che tutto ciò che gli era accaduto se lo fossero meritato. Cartelloni pubblicitari e campagne di stampa che proclamavano la natura criminale dell’ebraismo mondiale avevano infestato i media tedeschi durante il nazismo e queste campagne, benché cessate con la fine della guerra, stavano avendo i loro effetti, sebbene gli Alleati avessero stabilito quello che credevano essere il primo Governo veramente democratico della Germania.

Questo contesto era aggravato dal fatto che il numero maggiore di DP ebrei vivesse in Baviera, in campi profughi situati vicino a città infestate da nazisti irriducibili prima e durante la guerra. I nazisti che vivevano in queste aree probabilmente erano quelli che più avevano assorbito la propaganda contro gli ebrei diffusa dal Partito Nazista durante il Terzo Reich. I funzionari tedeschi in queste città citavano spesso il sovrabbondante coinvolgimento ebraico nel crimine, specialmente sulla Möhlstraße a Monaco di Baviera, come la causa principale per i recenti aumenti delle espressioni pubbliche di sentimenti antiebraici. Molti studiosi contemporanei hanno compreso che le reali cause del crimine in Germania erano da ricercarsi nella devastante sconfitta dei nazisti nel 1945, e che il mercato grigio e nero sarebbero cessati una volta ristabilita un’economia tedesca funzionante, ma il tedesco medio spesso ignorava tutto ciò.

La necessità di giustificare le azioni dei nazisti contro gli ebrei era così travolgente che ha portato molti tedeschi a impiegare delle tattiche diversive per difendere le proprie azioni. Secondo Samuel Gringauz, “l’unica possibile difesa per omicidi di vaste proporzioni è negare e calunniare le vittime-gli ebrei”. Egli continua affermando che “così come i tedeschi danno la colpa per i loro omicidi alle vittime, attribuiscono il loro presente disagio economico non ai nazisti, eroici conquistatori del mondo, ma ai profughi”. Molti tedeschi volevano negare il loro coinvolgimento nelle azioni criminali effettuate durante la Seconda Guerra mondiale e il modo più semplice per farlo era incolpare le vittime della criminalità nazista, sostenendo che in realtà queste persone erano anch’esse dei criminali.

Era chiaro nel 1947 che gli ebrei erano stati presi di mira come capro espiatorio per i problemi economici della Germania. Questo dato è particolarmente interessante se si considera che gli autori dei crimini in Germania erano tedeschi; le merci normalmente negoziate sul mercato nero e grigio erano state acquistate da agricoltori, industriali e grossisti tedeschi. È importante ricordare che i profughi ebrei dovevano necessariamente rivolgersi al mercato nero per approvvigionarsi di quegli elementi nutrizionali di cui la loro razione di cibo era povera, in particolare grassi e proteine.

I rapporti del periodo citano svariate cause per la rinascita dell’antisemitismo; il deterioramento del morale tra la popolazione tedesca, esacerbata da una prospettiva negativa sul proprio tenore di vita nell’immediato dopoguerra e dal perdurare della depressione economica nel Paese. Molti tedeschi credevano erroneamente che i profughi ebrei fossero mantenuti soltanto dalla popolazione locale. Inoltre, i tedeschi pensavano che le truppe americane non facessero molto per fermare le attività illegali dei profughi e che i criminali ebrei ricevessero un trattamento speciale. Dal punto di vista prettamente giudiziario, l’unica differenza rilevante era che un imputato tedesco spesso doveva attendere più tempo per il suo processo.

È opportuno ricordare che ad un DP arrestato per un reato era negato il permesso di ingresso negli Stati Uniti in modo permanente, inoltre, la percezione tedesca di un forte coinvolgimento degli ebrei nelle attività illegali non corrispondeva alla realtà, dato il basso numero di arresti. La discrepanza, un fatto documentato in Germania, era causata dal rifiuto da parte di molti tedeschi di ammettere che erano molti di più i loro concittadini ad essere coinvolti in attività criminali che gli ebrei.

Un aspetto centrale nella vita dei profughi ebrei era la possibilità di emigrare nell’allora Palestina mandataria o negli Stati Uniti; le quote di immigrazione verso la Palestina erano molto limitate e chi cercava di raggiungerla illegalmente era rinchiuso nei campi di prigionia inglesi a Cipro, inoltre, anche gli Stati Uniti avevano delle quote restrittive, che mantennero fino al 1949, tanto che soltanto 10.000 profughi ebrei poterono avere il visto d’ingresso.

In ogni modo, la nascita dello Stato d’Israele non permise un’emigrazione di massa dei profughi ebrei in Germania, poiché la guerra che coinvolse subito dopo la proclamazione il giovane Stato operò una selezione sui profughi, preferendo giovani in salute che potessero combattere. Si calcola che soltanto 30.000 profughi ebrei emigrarono in Israele nel corso del 1948. Questo numero crebbe sensibilmente dopo il 1952, ma fu controbilanciato anche da coloro che decisero di tornare in Germania e da coloro che decisero di rimanere, pur non avendo impedimenti formali per partire.

Israele accolse circa 142.000 profughi e gli Stati Uniti 80.000 tra il 1945 e il 1952, il Canada tra i 16.000 e i 20.000, l’Australia 5.000, il Belgio 8.000, la Francia 2.000 e i Paesi dell’America Latina e il Sud Africa altri 5.000. Rimasero circa 800 persone che non trovarono una casa all’estero, ma che furono integrate nella società tedesca.

Nel 1957 chiuse il campo di Föhrenwald, l’ultimo ancora operativo.

La natura particolare dei campi nella zona americana, abbinata agli straordinari sforzi messi in atto dalle organizzazioni di aiuto ebraiche attive nel Paese, diede ai profughi gli strumenti per ricostruire le loro vite. Il tempo che i sopravvissuti vi trascorsero fu come un ponte tra la Shoah e il loro futuro all’estero; molti incontrarono e sposarono i loro partner, ebbero dei figli e intrapresero delle carriere lavorative.

I campi ebraici nella zona americana aiutarono i superstiti a prepararsi per una nuova vita, dopo e nonostante Auschwitz.

 

Bibliografia

 

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1 Cfr. Leonard Dinnerstein, America and the Survivors of the Holocaust, Contemporary American History series

(New York: Columbia University Press, 1982): 291. Appendice B.

2 Cfr. Cfr. Judt, Tony. Postwar: A History of Europe since 1945. New York: Penguin Press, 2005, p. 21.

3 Cfr. Zeev W. Mankowitz, Life Between Memory and Hope: The Survivors of the Holocaust in Occupied Germany,

Studies in the Social and Cultural History of Modern Warfare (New York: Cambridge University Press, 2002). 257.

4 Philip S. Bernstein, “Address by Philip Bernstein,” in Jewish Displaced Persons (Jerusalem: AJJDC, 1946), p. 2.

5 Cfr. Boris Sapir, “Germany and Austria,” The American Jewish Year Book 49(1947-1948), p. 373.

6 Cfr. Sapir, “Germany and Austria,” p. 374.

7 Cfr. Sapir, “Germany and Austria,” p. 373.

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