Editoriali

Gli stati Uniti e l’esportazione della democrazia

Da quando si sono affacciati prepotentemente sulla ribalta mondiale– a partire dalla Prima guerra mondiale –gli Stati Uniti lo hanno fatto, come altre potenze prima di loro, animati da molteplici ragioni di carattere politico, economico e nel nome delle alleanze internazionali. Insieme a queste ragioni è sempre stata presente la convinzione, che entrando in un conflitto lo facevano anche mossi dal desiderio di “esportare” il proprio modello culturale, saldamente basato sui principi della democrazia e della libertà a loro volta ancorate all’idea che il “progresso” fosse un processo umano inevitabile, che, tuttavia, in alcune circostanze andava “aiutato” con le armi. Per queste ragioni gli americani sono sempre stati gli unici vincitori che si sono sempre battuti durante le trattative di pace, a conclusione dei conflitti a cui hanno partecipato, affinché la situazione non tornasse allo status quo ante ma in modo che i paesi sconfitti fossero condotti nell’alveo della democrazia e della libertà.

Non è un caso che tutti i presidenti che hanno portato gli Stati Uniti ad entrare nei grandi conflitti fossero democratici: Wodroow Wilson (Prima guerra mondiale), Franklin D. Roosevelt (Seconda guerra mondiale), Henry Truman (Guerra di Korea), John Fitzgerald Kennedy/Lyndon Johnson (Guerra del Vietnam). I soli presidenti repubblicani ad impegnarsi in un grande conflitto furono i Bush: George Bush nel 1991 in Kuwait e George W. Bush in Afghanistan (2001) e Iraq (2003).

Che la democrazia e la libertà siano “esportabili” in generale e con le armi in particolare è un fatto che storicamente è estremamente raro. Nei pochi casi in cui ha funzionato è successo in Europa, dove l’idea di democrazia e libertà è nata e cresciuta, e l’uso delle armi ha interrotto una parentesi totalitaria (Italia e Germania) con la Seconda guerra mondiale, o dopo la Guerra fredda (i paesi dell’Est Europa). Al di fuori del continente europeo ha funzionato solo con il Giappone (sconfitto nel secondo conflitto mondiale), in India (con la decolonizzazione), a Taiwan (Cina nazionalista protetta dagli USA) e in Corea che però ha avuto le prime elezioni veramente libere e democratiche solo nel 1988 quindi ben 35 anni dopo la fine della guerra.

Quanto detto fin ora ci fa capire che quello che è appena avvenuto in Afghanistan non è un’eccezione ma purtroppo la regola. In Europa si ha la falsa percezione che tutto il mondo possa, se solo si impegnasse a farlo, uniformarsi al modello europeo, ma, evidentemente, non è così. A livello globale democrazia e libertà sono una merce estremamente rara e le persone che possono godere dei loro benefici, il più delle volte, non ne comprendono appieno nè la portata nè la rarità.

In questi giorni, tanti commentatori, esperti o semplici detrattori degli USA, stanno rimarcando il fallimento americano – purtroppo innegabile – ma in pochi stanno mettendo in luce le reali conseguenze di questo fallimento. Su L’Informale ne ha brillantemente scritto Niram Ferretti (http://www.linformale.eu/il-ritorno-dei-talebani-e-il-potere-del-simbolico). Qui accenneremo solo a due aspetti inerenti al ritiro americano dall’Afghanistan.

Il primo è relativo al “vuoto” che questo ritiro così maldestro ha causato, cioè la percezione in tanti paesi ostili agli USA (ma anche all’Europa) che il modello Occidentale si trova in una crisi profonda, forse irreversibile. Questa percezione darà molto probabilmente un ulteriore forte impulso alle mire espansioniste della Cina, la quale potrebbe tentare l’azzardo di occupare Taiwan, nonchè dell’Iran, della Russia e  della Turchia.

La presa del potere dei Talebani è una disgrazia concreta solo per il popolo afghano ma il fatto si riverbererà in tutto il mondo come un sisma più o meno intenso in base alle aree geografiche e alla volontà aggressiva dei soggetti sopra indicati.

Il secondo aspetto da rimarcare è relativo ai concetti stessi di democrazia e libertà. Dati per scontati in Occidente sono praticamente sconosciuti nella stragrande parte del resto del mondo. Il caso afghano è l’ennesima dimostrazione di come sia estremamente difficile se non impossibile fare attecchire delle profonde e solide radici culturali che permettano lo sviluppo della democrazia e della libertà in un paese alieno alla sua specificità. In pochi giorni di avanzata talebana il simulacro di Stato democratico afgano è crollato miseramente, dimostrando ancora un volta che la classe politica e militare locale ha utilizzato la democrazia e la libertà solo ad uso e consumo dell’Occidente mentre nella realtà non ha fatto nulla per farne attecchirne le radici all’interno della società afgana. Vent’anni di impegno politico ed economico sono stati spazzati via in pochi giorni. Colpa degli Stati Uniti? Colpa dell’Occidente? Sicuramente gli americani hanno le loro responsabilità così come l’Europa ma non è di nessuna utilità fare finta di non comprendere che la democrazia, la libertà e il rispetto dei diritti umani sono il prodotto e la prerogativa coltivate nei secoli da specifiche culture e non da altre. La storia ha ampiamente dimostrato che “esportare” questo prodotto è molto difficile e necessità, nei rari casi in cui l’imporesa è riuscita, di un impegno gigantesco. Semplicemente bisogna convincersi che è necessario convivere con la consapevolezza che il “progresso” così come l’Occidente lo ha concepito e lo concepisce non può penetrare ovunque.

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