Interviste

L’esito americano dall’Afghanistan e le sue conseguenze: Intervista a Daniel Pipes

Daniel Pipes, ospite abituale su L’Informale, presidente del Middle East Forum e tra i maggiori esperti internazionali di Medioriente ha accettato di rispondere alle nostre domande sul recente ritiro americano dall’Afghanistan.

Come valuta ciò che è appena successo in Afghanistan?

Questo cataclisma ha due grandi implicazioni per il mondo esterno: la vittoria dei talebani e la sconfitta americana. Controintuitivamente, il trionfo dei talebani danneggia l’islamismo e persino l’islam perché i talebani rappresentano un tale estremismo che il loro successo respinge molti più musulmani di quanti ne attragga. La sconfitta americana andrà a beneficio dei governi ostili agli Stati Uniti mentre gli alleati degli Stati Uniti in futuro si premuneranno nei loro confronti.

Su Commentary Noah Rothman ha scritto: “Non è chiaro cosa abbiano guadagnato gli Stati Uniti dal ritiro della piccola, economica ed efficace forza deterrente rimasta in Afghanistan per sostenere le proprie forze di sicurezza. È inquietantemente ovvio ciò che abbiamo perso: prestigio nazionale, ingenti somme di capitale politico, credibilità sulla scena mondiale e, cosa più tangibile, la nostra sicurezza. Il mondo è molto più pericoloso oggi di quanto lo fosse solo 72 ore fa”. E’ d’accordo?

Sì, completamente. Diversi fatti rendono questo ritiro ancora più doloroso. Come nota Jeff Jacoby, non ci sono state perdite americane nell’ultimo anno e mezzo; c’erano solo 2.500 soldati americani in Afghanistan, meno di  quanti ce ne siano in luoghi come il Gibuti (3.000), il Bahrain (5.000) e il Kuwait (13.000); e le truppe statunitensi sono in Afghanistan da soli vent’anni, molto meno degli oltre settanta anni in cui sono di stanza in Germania e in Corea del Sud. Allora, a cosa è dovuta l’impazienza? L’ex vicepresidente Mike Pence suggerisce che il presidente Biden “semplicemente non voleva dare l’impressione di rispettare i termini di un accordo negoziato dal suo predecessore”. Lo trovo convincente.

Il ritorno dei talebani darà una spinta al jihadismo?

Sì. Ironia della sorte, mi aspetto che  siano vicini come l’Iran, il Pakistan e la Cina, così come vicini come la Turchia e la Russia, a soffrire più degli Stati Uniti per la violenza appoggiata dai talebani. I talebani hanno molti conti da regolare e battaglie da combattere nella loro regione. Inoltre, fornire la base per l’attacco dell’11 settembre non è gli è andata molto bene.

Dalla Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno garantito i valori e la sicurezza occidentali; ma negli ultimi quindici anni abbiamo assitito alla tendenza americana di ritirare le truppe da luoghi pericolosi come la Siria, l’Iraq e l’Afghanistan. Cosa comporta tutto ciò per la credibilità degli Stati Uniti?

Ha eroso la loro credibilità e capacità  di deterrenza. Fondamentalmente, la leadership a Washington è stata più incline a impegnarsi in scontri militari – può aggiungere i Balcani e la Somalia alla sua lista – rispetto alla popolazione americana. Questo ha condotto allo schema ricorrente del paese che si fa coinvolgere e poi si ritira.

La ritirata americana dall’Afghanistan incoraggerà avversari dell’Occidente come la Turchia, l’Iran, il Pakistan, la Russia, la Cina e la Corea del Nord?

Stanno festeggiando e chi può privarli di questo piacere? Detto questo, non sovrastimiamo il loro incasso. I luoghi del ritiro degli Stati Uniti  menzionati prima hanno sofferto tutti di una qualche forma di guerra civile; al contrario, stati che si sono mantenuti integri come la Grecia, Israele, gli Emirati Arabi Uniti, l’India, Taiwan e la Corea del Sud non devono preoccuparsi di essere abbandonati. Nessun soldato americano sta pattugliando le strade di Atene. Spero che i nemici degli Stati Uniti e dei loro alleati non si affrettino a fare  degli errori.

Tempo fa lei ha scritto che “la diplomazia raramente pone fine ai conflitti”. Cosa vi pone termine?

La resa di una delle due parti. Esempi eloquenti includono il Sud durante la guerra civile degli Stati Uniti, le potenze dell’Asse nella Seconda guerra mondiale, il governo degli Stati Uniti in Vietnam e l’Unione Sovietica nel 1991. Controesempi in cui nessuna delle due parti si arrende includono la Prima guerra mondiale, la Guerra di Corea, i palestinesi contro Israele e l’Azerbaigian contro l’Armenia.

L’Iraq e l’Afghanistan sono esempi recenti e chiari che mostrano la difficoltà di esportare la democrazia; non sarebbe più saggio accettare il fatto che gran parte del mondo le sarà sempre impermeabile?

Il governo degli Stati Uniti ha tentato e realizzato qualcosa di unico nel 1945, quando ha deciso di non saccheggiare i suoi avversari sconfitti ma di ricostruirli a propria immagine, un’eredità di cui giapponesi, tedeschi, italiani e altri continuano a godere. Ma quella era una circostanza speciale di guerra totale e vittoria totale che lasciava i vincitori trionfanti con un’ideologia da diffondere e i perdenti affannati per la loro sopravvivenza. Tali condizioni non hanno retto con gli sforzi più recenti, ad esempio in Afghanistan e in Iraq. Appoggio lo sforzo di diffondere la democrazia, ma desidero limitarlo a opportunità reali, non sempre e non ovunque. Nella maggior parte delle situazioni, dovrebbe essere esercitato sotto gli auspici di un uomo forte dalla mentalità democratica che può, come Ismet Inönü in Turchia o Chiang Kai-shek a Taiwan, introdurre la democrazia per un periodo lungo.

Gregg Roman ha recentemente scritto sulla Jewish Press che quello che è successo in Afghanistan ha da impartire delle lezioni a Israele, soprattutto una che “l’Islam fondamentalista non si arrende senza l’uso della forza”. Qual è il suo consiglio a Israele all’indomani della presa di potere dei talebani?

Il mio consiglio a Israele è di continuare a insistere sulla propria autosufficienza e a non non trovarsi mai nella posizione di dipendere da un potere esterno per la propria sicurezza e indipendenza.

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