Editoriali

I bramini e i riformatori

Bisogna fare ordine per capire cosa accade in Israele dietro la cortina fumogena della propaganda, dell’isteria, della ben oleata macchina delle manifestazioni “spontanee” che in questi mesi hanno inondato le piazze (e leggersi o rileggersi La psicologia delle folle di Gustave Le Bon, testo immarcescibile sulla porosità al condizionamento della psiche umana farebbe bene a molti).

Abbiamo sentito in questi mesi gridare al golpe, all’eversione, all’imminente apparecchiarsi di una dittatura, i toni non hanno fatto concessioni alle sfumature. Su Israele incomberebbe il disastro più assoluto, la fine della democrazia, il venire meno della convivenza civile, la distruzione del tessuto dello Stato. Quello che in anni non è riuscito agli arabi, al terrorismo palestinese, l’obbiettivo non raggiunto da Arafat con due intifade, ora sarebbe prossimo. Senza bombe e corpi martoriati di civili per le strade di Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa, ma semplicemente in virtù di una riforma, quella della giustizia, da lungo tempo in attesa, e ora, finalmente attuabile grazie a una convergenza compatta da parte dell’attuale maggioranza.

Il coro degli intellettuali di sinistra è unanime, la fine di Israele per come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi è alle porte, vuole questo esito un governo impresentabile, clerico-fascista con alla guida un premier sotto processo. Non ha, ovviamente, alcuna importanza che gli “impresentabili” siano stati votati democraticamente, che nessuno abbia parlato di brogli, di elezioni rubate, che gli elettori abbiano votato in coscienza Netanyahu reputando inconsistenti le accuse nei suoi confronti, questo è del tutto irrilevante, come è irrilevante che la riforma della giustizia fosse esplicitamente dichiarata nel programma elettorale del governo. Per i David Grossman, per gli Eshkol Nevo, per altri “maestri” di scrittura e di pensiero, questo governo è colpevole a prescindere, è nato nella colpa.

La fiaccola degli odiatori in servizio effettivo permanente non spetta però o a loro, ma a colui che negli anni si è trasformato in un giacobino forsennato, Ehud Barak, il premier israeliano di più rapida durata, colui a cui si deve il tentativo di svendita di Israele nel 2000, quando si accordò per concedere a Yasser Arafat tra il 94 e il 96% della Giudea e Samaria più il 100% di Gaza con una compensazione di territori israeliani ulteriori ammontanti tra l’1 e il 3% per il 4 e il 6% dei territori della Giudea e Samaria che Israele si sarebbe trattenuto. Naturalmente, Gerusalemme sarebbe stata divisa in due. Fortunatamente per Israele Arafat disse di no e diede via alla Seconda Intifada.

Il fascismo è ormai per Barak categoria interpretativa assoluta dell’esistente. Tutto ciò che si trova appena un po’ a destra della sinistra, lo è intrinsecamente, e come non potrebbe esserlo massimamente il governo in carica, guidato dall’uomo dal record opposto al suo, quello del più longevo primo ministro che Israele abbia mai avuto?

Una volta che la cortina fumogena si dissipa, che le urla cessano, una volta che l’assordante propaganda di questi mesi si acquieta un attimo, la realtà appare per chi sappia vederla, esattamente opposta a quella dichiarata.

La riforma della giustizia in cantiere ha la funzione di volere ripristinare ciò che essa viene accusata di volere sabotare, ovvero ha lo scopo di ricondurre all’equilibrio un potere, quello della Suprema Corte, che da decenni ha esondato completamente dalle sue prerogative, trasformandosi di fatto, in un governo ombra, in un organo che, in assenza di una Costituzione, interpreta se stesso, del tutto arbitrariamente, come sua incarnazione vivente.

La Knesset può si formare governi e varare leggi, ma solo ed unicamente sotto la tutela morale di giudici licurghi per i quali le leggi possono essere accettabili o meno se rispettano il più soggettivo e abusabile dei criteri, quello della ragionevolezza.

Ma bisogna fare un passo indietro, risalire fino al 1995, quando avvenne qualcosa di unico nella storia delle democrazie moderne.

Convocati in parlamento per  approvare due delle leggi Base dello Stato, ovvero le leggi del 1992 sulla Dignità Umana e la Libertà, e quella sulla Libertà di Occupazione, i parlamentari, meno di un quarto dei 120 aventi diritto, approvarono le leggi in questione senza tuttavia essere informati che esse avrebbero assunto uno status costituzionale. Questo lo decisero i giudici, di loro arbitrio, dopo che le leggi furono approvate con una risicata maggioranza degli aventi diritto.

Si trattò di un vero e proprio atto di pirateria giudiziaria. Improvvisamente e senza la convocazione di un’assemblea costituente Israele si trovava con delle leggi investite di prerogative costituzionali, e in base alle quali ogni futura legge dell’esecutivo che avrebbe toccato il loro ambito sarebbe stata giudicata idonea o non idonea.

Questo non fu altro che un passaggio, marcato e imperioso, di un processo di attivismo giuridico che era già in corso da metà anni Ottanta e che non aveva trovato opposizione.

La Corte Suprema, a un certo punto, aveva deciso di allargare il perimetro di ciò che essa considerava giudicabile, estendendolo a questioni che, precedentemente aveva considerato al di fuori della propria giurisdizione. Un passaggio emblematico fu il caso Ressler, nel 1986, quando la corte decise di dare seguito a una petizione contro l’esenzione dalla leva degli studenti religiosi delle yeshivot, una questione che era già stata portata al suo esame nel passato venendo respinta in quanto considerata di non pertinenza.

Questa svolta della Corte, la sua progressiva incidenza giuridica su pressoché ogni aspetto dell’esistente la si deve a una ben precisa filosofia giuridica, riassunta plasticamente da chi, in Israele, ha saputo incarnarla all’ennesima potenza, Aharon Barak, già presidente della Suprema Corte dal 1995 al 2006 e precedentemente Procuratore Generale dal 1975 al 1978, nonché decano della facoltà di Legge dell’Università di Gerusalemme dal 1974 al 1975, definito eloquentemente da Richard Posner, uno dei maggiori giuristi americani, come “un bucaniere della legge”.

Non esistono ambiti sui quali la legge non possa intervenire, e se ci sono essi sono marginali. La legge, per il non religioso Barak è in realtà un surrogato della Torah, un dispositivo sacro al quale ognuno deve sottomettersi, non in quanto legge ma in quanto apparato attraverso cui si invera la Giustizia. La giustizia non è un ideale, ma è pratica concreta che la legge manifesta a discrezione, ben si intende, di esseri umani dotati di un sapere superiore, i giudici, appunto, specialmente se siedono sugli alti scranni della Suprema Corte e sono tutti convergenti sul fatto che la legge non deve servire la legge ma la morale.

Soprattutto a lui si deve l’attivismo onnivoro della corte, soprattutto a lui si deve la convinzione estremamente problematica e altrettanto estremamente potenzialmente perniciosa che legge e giustizia abbiano a coincidere.

Occorre riannodare i fili, esaminare i precedenti. Quando, nell’agosto del 1986, due giornali ultraortodossi criticarono Barak e l’iperattivismo della corte in ambiti che tradizionalmente erano restati al di fuori delle sue prerogative, vedi il citato caso Ressler, in Israele si scatenò il finimondo. Venne chiesta la chiusura dei giornali, i politici di entrambi gli schieramenti si scagliarono contro di essi, e ci fu chi, come l’allora Ministro delle finanze, Dan Meridor, anticipando il futuro Ehud Barak, sentenziò che gli editoriali apparsi sui due giornali costituivano una “violenta campagna di incitamento senza precedenti nella storia dello Stato, il cui scopo non è solo quello di danneggiare giudici consolidati ma di minare i valori della società e la fiducia del pubblico nel sistema giudiziario”.

Dunque anche trentasette anni fa chi osava criticare la Corte Suprema, toccava i fili dell’alta tensione, rischiando di restare fulminato, come accadde, infatti, poco dopo all’allora presidente dell’Associazione degli Avvocati, Dror Hoter-Yishai, un laico, il quale osò affermare in una intervista che una corte non deve preordinarsi a ciò che essa ritiene sia la giustizia, ma deve occuparsi della legge: “La cosa più pericolosa per una corte e che un giudice sia libero di fare ciò che esso ritiene sia corretto, in base alla sua opinione di cosa lo sia o meno. Una corte deve occuparsi solo della legge. La legge è determinata dalla legislatura. E’ la legislatura che stabilisce le norme legali e se il popolo non le approva ha il potere di rimpiazzarla, ma non ha il potere di rimpiazzare i giudici che sono eletti a vita Ne consegue che i giudici non possono stabilire norme morali”.

Hoter-Yishai non si fermò e andò da accorto uomo di legge diritto al problema, prendendo di mira il principio di ragionevolezza, sul quale prima della chiusura della Knesset, il governo ha votato compattamente per modificarne l’utilizzo. Cosa disse Hoter-Yishai? “Se si comincia a mettere sotto esame la ragionevolezza e l’appropriatezza di una decisione, quello che si afferma essenzialmente è, ‘Sono io a deliberare’ poiché  si antepone il proprio giudizio a quello del governo”.

Le reazioni non si fecero attendere. Di Yoter-Hoshai venne chiesta la testa. Da Meretz arrivò la richiesta di aprire una inchiesta nei suoi confronti per diffamazione nei confronti della corte, uno dei comitati talebani di salute pubblica allora già presenti chiese che venisse dimesso dalla presidenza dell’Ordine degli Avvocati, mentre il precedente presidente della Suprema Corte, Moshe Landau, affermò che il “grossolano sfogo” del Presidente dell’Ordine degli Avvocati non poteva passare sotto silenzio, come di fatto fu.

Da allora ad oggi, la Suprema Corte non solo ha mantenuto tutto il suo potere fiancheggiato da solerti intimidatori come avveniva all’epoca dei fatti riportati, ma lo ha strutturalmente consolidato, trasformandolo in una roccaforte praticamente inespugnabile, all’interno della quale una casta di bramini autoperpetuanti tiene da decenni l’esecutivo sotto scacco.

Per la prima volta un governo tenta l’inosabile, espugnare la fortezza, riformare la casta che lo abita, da qui e solo da qui ne è conseguito e ne consegue tutto ciò a cui abbiamo assistito, la demonizzazione forsennata del governo, il tentativo di rovesciarlo movimentando le piazze, la fomentazione di un clima di isteria e apocalittismo, mentre dall’estero, da parte dell’attuale amministrazione americana, si è vista una ingerenza senza precedenti negli affari interni di Israele. Tutto questo a dimostrazione di quanto il potere della Corte sia vasto, forte, spregiudicato e pronto a combattere con tutti i mezzi a disposizione per salvaguardarsi.

Prima della chiusura estiva del Parlamento, il governo Netanyahu ha incassato un importante risultato facendo passare la legge che riforma il principio di ragionevolezza, limitandone l’uso e l’abuso. E’ un inizio promettente, ma la battaglia sarà ancora dura e senza esclusione di colpi.

Con la riforma della giustizia messa in cantiere dall’esecutivo, la Corte rischia realmente di diventare un organo legislativo come in tutti gli altri sistemi democratici, e non come di fatto è in Israele, un potere usurpante quello dell’esecutivo. La storia insegna che quando un potere che abusa di se stesso si trova sotto attacco, non lascerà nulla di intentato per continuare a conservarlo.

Se il governo Netanyahu riuscirà a portare a casa la riforma, il risultato sarà di grande rilevanza, non solo politica ma sociale, se non riuscirà a farlo avremo la dimostrazione contraria che lo status quo consolidato dai magistrati in tutti questi anni è di fatto irriformabile.

 

 

 

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