Israele e Medio Oriente

Il disastro

Si tratta di un bilancio ancora parziale quello che ci arriva da Israele in queste ore concitate. Centocinquanta è il numero delle vittime di Hamas comunicato fino adesso, ma probabilmente è destinato ad aumentare. Il numero delle persone rapite e trasferite forzatamente a Gaza non si conosce ancora, ma si parla di almeno cinquantadue persone.

Lo scenario è apocalittico. Si tratta della più grave e massiccia azione terroristica realizzata in Israele dalla fine della Seconda intifada, quella che ha provocato, in una volta sola, il maggiore numero di vittime ed evidenzia, duole dirlo, come ha scritto Niram Ferretti nel suo editoriale, una grave carenza da parte degli apparati di sicurezza israeliani nel non avere saputo prevenire questo scempio.

Quali sono i fattori che lo hanno determinato? Perché adesso?

Due sono gli elementi chiave. Il primo è costituito dall’annunciato ed epocale accordo tra Israele e Arabia Saudita, la quale considera Hamas, alla pari di Israele e degli Stati Uniti, una formazione terrorista, il secondo è la percezione che Israele non possieda più la forza d’urto di una volta, che sia meno coeso e forte. A questa percezione di un generale indebolimento hanno certamente contribuito i mesi e mesi di proteste contro il governo Netanyahu in merito alla riforma della giustizia.

Agli occhi dei nemici perenni di Israele non è certo sfuggita la protesta di centinaia di riservisti i quali hanno accusato il governo di avviare il paese verso una dittatura minacciando in modo dissennato di rifiutare di continuare a prestare servizio nell’esercito.

Più di tutti, nella regione, è l’Iran a temere un accordo tra Israele e l’Arabia Saudita e l’avviamento di un possibile programma nucleare saudita come parte dell’accordo.

I rapporti stretti anche se altalenanti tra Hamas e Teheran sono noti. E Teheran non può che rallegrarsi di questa azione che ha mostrato all’intero mondo islamico l’impreparazione e la debolezza di Israele.

I mesi di proteste contro una riforma legittima e necessaria, le accuse deliranti contro il governo in carica, la spaccatura radicale della società israeliana su questo tema, e soprattutto la percezione di un esercito non più compatto e ordinato ma diviso, ha fornito alla formazione jihadista salafita che governa Gaza dal 2007, l’immagine di un paese logorato, certo non quella di una grande forza unita.

Lo scenario che si apre è gravido di incognite e conduce inevitabilmente Israele a un bivio.

Continuare a bombardare le postazioni di Hamas come è stato fatto in questi ultimi nove anni ogni volta che Hamas ha attaccato Israele non ha portato alcun risultato duraturo e rilevante, e l’azione clamorosa che i jihadisti hanno portato a termine lo dimostra con una eloquenza spaventosa.

Se entrare massicciamente a Gaza e riprenderne il controllo dopo avere distrutto il terrorismo che vi prospera è una opzione troppo problematica e dai costi umani potenzialmente esorbitanti per lo Stato ebraico, non resta che distruggerne completamente la struttura dirigente, congelarne i fondi, e soprattutto, scelta ardita e ardua colpire al cuore il suo maggiore sponsor regionale, l’Iran.

In nessun altro modo Israele può venire a capo di una situazione che, per come si presenta, è senza sbocco.

 

 

 

 

 

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