Editoriali

Il gioco delle parti

Cosa accomuna l’Amministrazione Biden e Hamas in merito alla guerra in corso a Gaza a seguito del 7 ottobre? Il raggiungimento del medesimo obiettivo, la fine della guerra.

Hamas ha questa esigenza prioritaria per potere sopravvivere e riprendere relativamente presto il controllo della Striscia.

In sei mesi di guerra l’IDF ha solo debilitato il gruppo jihadista di meno della sua metà, e per Hamas riprendere il controllo della Striscia dopo che l’esercito israeliano la lasciasse sarebbe solo questione di tempo. Ricostruire la propria piena operatività costerebbe più tempo, ma la difficoltà non sarebbe insormontabile.

Per l’Amministrazione Biden, la fine del conflitto, significherebbe un notevole rilancio dell’immagine appannata di Joe Biden come broker di pace, e gli consentirebbe a soli sei mesi delle prossime presidenziali di togliersi dal fianco una spina che è diventata sempre più fastidiosa. Che la guerra, finendo senza una sconfitta netta di Hamas a Gaza comporti che esso potrà continuare a permanervi e quindi intestarsi la vittoria, è un problema secondario.

In questo senso l’accordo proposto a Hamas per la liberazione degli ostaggi accontenta entrambi, nonostante per Yahya Sinwar ci vogliono ancora dei ritocchi più espliciti sul fatto che la guerra, dopo la lunga tregua che l’accordo prevede, finisca per davvero.

Una cosa va sottolineata, che l’accordo, o meglio, la resa di Israele a Hamas, è stato avallato da Benjamin Netanyahu, il quale, contemporaneamente, continua a minacciare un attacco a Rafah, avamposto estremo di Hamas nel sud della Striscia.

Le sue affermazioni, bollate dal segretario di Stato americano, Antony Blinken, come “retorica” ci dicono molto di quanto la minaccia di un attacco a Rafah serva solo a tenere Hamas sulla graticola ma, al contempo dicono a Hamas che può ottenere il massimo senza doversi preoccupare troppo.

Netanyahu non vuole in realtà alcuna vasta operazione militare, la sua mancanza di nerbo, già palesatesi nel 2014 durante l’Operazione Margine di Protezione, l’ultimo conflitto di vaste proporzioni che ha preceduto questo, non è un tratto estemporaneo ma è costitutivo di un carattere portato naturalmente al compromesso, alla mediazione, o per dirla in modo meno lusinghiero, agli equilibrismi, di cui è sempre stato maestro incontrastato.

Minacciare l’ingresso a Rafah, (come se fosse risolutivo, e non lo è, per bonificare Gaza ci vorranno anni), gli serve anche per tenere buoni Bezalel Smotrich e Itmar Ben Gvir, gli unici veri falchi di un governo che dopo le reazioni bellicose ed emotive dei primi giorni si è progressivamente ridotto, insieme al Gabinetto di guerra, a recepire in toto le direttive americane.

Se Hamas accetterà l’accordo proposto, Netanyahu, che, ribadiamo, lo ha avallato, potrà intestarsi il successo della liberazione degli ostaggi, e, allo stesso tempo, continuare ad affermare che la guerra continuerà, e che a Rafah, (diventata simbolo della vittoria procrastinata), si entrerà senz’altro, nel futuro che verrà. Ha già messo in conto il rischio che Smotrich e Ben Gvir lascino il governo e che quindi si vada ad elezioni, ma convinto della sua insostituibilità, pensa di poterle vincere ancora. Quando la hybris non ha limite.

E se Hamas dovesse rifiutare quella che Blinken ha definito una proposta molto generosa (e in effetti cosa c’è di più generoso di una resa, per il nemico?), allora forse Israele procederà a Rafah, ma dall’aria che tira, tutto fa supporre che alla fine la quadra si troverà e Netanyahu e Blinken potranno congratularsi per avere tenuto in piedi così bene il gioco delle parti.

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