Editoriali

Il rifiuto nei confronti di chi ha vinto

“Il caos è qui, con tutta la sua forza di risucchio” decretava David Grossman a dicembre, in un suo intervento poco dopo l’insediamento del governo Netanyahu. Il caos, naturalmente è Netanyahu e chi lo accompagna, soprattutto gli “impresentabili” Itmar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, impresentabili per la sinistra, per buona parte dei residenti di Tel Aviv per i quali in Giudea e Samaria vive una strana e aberrante forma di ebrei noti come “coloni”, gente che non si inviterebbe mai a cena e che crede ancora arcaicamente sulla scia di Abramo, nell’esistenza di un rapporto indistruttibile tra ebraismo e terra, un po’, diciamo, il fondamento stesso del sionismo.

L’affermazione dello scrittore israeliano molto à la page e superstite della trimurti letteraria de-occupazionista rappresentata dai compianti Amos Oz  e Abraham Yehoshua incarna in modo perfetto e inesorabile ciò che pensa la sinistra israeliana e quale è il suo atteggiamento liberale nei confronti di chi ha vinto alle ultime elezioni.

Per costoro, e certo non da oggi, la parola “democrazia” ha un significato univoco e un altrettanto univoco referente, non implica alternanza ed è esclusivamente incarnata dalla parte politica che essi rappresentano. Tutto il resto è uno sgradevole incidente di percorso, anzi un vulnus. Così fu quando Menachem Begin osò vincere le elezioni nel 1977, dopo quasi cinquanta anni di incontrastato dominio laburista, il “fascista” Begin, colui il cui mentore era stato Ze’ev Jabotinsky, figura enorme e così odiato da Ben Gurion che ne impedì la sepoltura in Israele fino a quando restò in carica. Anche i padrei nobili erano uomini corredati da indistruttibili meschinità. Vino vecchio in otri nuovi dunque? Fondamentalmente. Ne abbiamo scritto varie volte in questi giorni in merito alla vituperata riforma della giustizia che fa parte del programma con il quale Netanyahu è stato eletto. Una riforma necessaria e tardiva, sicuramente non perfetta come non lo è nessuna legge, ma contro la quale è stata scatenata una mobilitazione senza precedenti.

Il comune denominatore di tutti gli interventi contro la riforma è il seguente: con la riforma in atto Israele cesserebbe di essere una democrazia, diventerebbe un’autocrazia, o forse persino una dittatutra piena. Il paese è in pericolo, bisogna salvarlo dall’abisso, o meglio dal caos, per citare Grossman, e chi può farlo se non Benny Gantz, Yair Lapid, forse Naftali Bennett, o Mansour Abbas? i componenti del governo precedente che per Grossman e compagni vari rappresentava l’opposto del caos, l’ordine, la bella forma, la continuità?

Sarcasmo a parte, questo è il canovaccio. La fotografia che ci consegna oggi Israele è quella di un paese profondamente diviso, una società in cui il disconoscimento dell’avversario è diventato radicale, soprattutto se è un rappresentante della destra. E’ già successo recentemente negli Stati Uniti, dove in fase pre-elettorale e successivamente alla sua vittoria, la demonizzazione di Donald Trump fu incessante, quotidiana. Si tratta, in entrambi i casi di democrazie malate, non strutturalmente, ma dentro lo stesso corpo elettorale dove prevalgono sentimenti fortemente manichei, e il compromesso, la collaborazione, l’intesa ragionevole, sono considerate cedimenti inammissibili nei confronti del Nemico.

Lo scopo di tutto il bailamme in atto, è uno solo, fare cadere il governo in carica, costringerlo all’implosione interna, disconoscere il responso delle urne e riportare dissennatamente il paese alle elezioni, ma in questo caso, come si è già visto, il rimedio potrebbe essere peggiore del male, ovvero, che Netanyahu esca ancora vincitore, forse anche più forte di quanto lo sia adesso. Vista la caratura politica degli attori che gli contendono il primato, è il più probabile degli esiti.

 

 

 

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