Editoriali

L’ideologia sopra ogni altra cosa

C’è ancora qualcuno che davvero crede che quanto sta accadendo in Israele, il dilagare delle proteste in molteplici settori civili e che ora hanno investito anche una parte dei riservisti, quindi il comparto militare, abbia a che vedere unicamente con la annunciata riforma della giustizia? Davvero c’è qualcuno di così ingenuo o sprovveduto da non capire di cosa si tratta realmente?

La riforma della giustizia annunciata dal governo Netanyahu e presentata nel programma elettorale, quindi resa manifesta a chi ha votatato alle ultime elezioni, è solo uno specchietto per le allodole, o meglio dire è il casus belli. Non che la riforma, per come è concertata non vada a modificare strutturalmente il potere abnorme della Corte Suprema israeliana, il punto non è questo. Il punto è Netanyahu, è il suo governo di “ultra-destra”, il problema sono Itmar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, il problema è lo stesso premier che l’opposizione sperava fosse definitivamente uscito di scena in virtù delle risibili accuse che gli sono state mosse e dei processi costruiti intorno ad esse.

Come ha dichiarato recentemente Caroline Glick in un suo intervento pubblico, la sinistra, in Israele, è “un ecosistema”, assai più di una mera rappresentanza politica, come lo è, d’altronde, negli Stati Uniti. Se  fosse solo questo, tutto quello a cui stiamo assistendo, l’impeto della protesta, gli allarmismi oltreoceano, le ingerenze americane, gli interventi delle agenzie di rating, ecc. non avrebbero luogo. Il clamore in corso, l’esagitazione iperbolica non si sarebbero manifestati in modo così eclatante.

In un loro recente comunicato, i riservisti protestatari hanno dichiarato che non vogliono vivere sotto “una dittatura” e hanno definito Itmar Ben Gvir, “un criminale kahanista”. Benny Ganz, Ehud Barak, entrambi ex militari pluridecorati e con una carriera ai vertici dell’IDF non hanno avuto alcuna esitazione ha dichiarare che se la riforma della giustizia non verrà stoppata si andrà incontro a una “guerra civile”.

Messe insieme, tutte queste affermazioni denunciano la ripulsa assoluta di una parte del paese nei confronti di Netanyahu e del suo governo.

Criticare un governo in carica, in una democrazia è fisiologico, è una prerogativa dell’opposizione e dei media che le sono vicini, ma quella a cui stiamo assistendo non è critica, è una delegittimazione radicale che si fonda su un disconoscimento quasi antropologico dell’avversario.

Il clima irresponsabile da guerra civile è stato generato e viene mantenuto in vita dall’ecosistema di cui ha parlato la Glick, il vasto e articolato insieme che comprende la parte più consistente dei media, dell’università, che può contare su un vasto appoggio all’interno dell’esercito, che si avvale di ONG finanziate da capitali stranieri, le medesime che da anni contribuiscono a minare la credibilità di Israele all’estero e che, nella Suprema Corte, ha da almeno tre decenni la propria punta di diamante, la garanzia di salvaguardia della propria struttura.

Quando, nel 1977, dopo quarantanove anni di ininterrotto dominio del partito laburista, Menachem Begin vinse le elezioni, non provvide a mettere in atto, come avrebbe potuto fare, uno spoil system. Pur essendo stato demonizzato in campagna elettorale e accusato prevedibilmente di fascismo, lasciò ai loro posti, nei vari settori nevralgici della società civile, i vecchi socialisti che da anni occupavano quelle posizioni. Begin li considerava giustamente persone che se si fosse reso necessario avrebbero anteposto le loro preferenze ideologiche all’interesse superiore dello Stato, ma erano altri tempi, erano altri uomini, pur nella durezza senza sconti delle contese politiche. Oggi non è più così, e non è più così da molto tempo.

L’ecosistema di sinistra presente oggi in Israele, privilegerà sempre, come sta facendo, l’ideologia rispetto ad ogni altra considerazione.

 

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