Israele e Medio Oriente

Israele e la gestione dell’acqua: parte seconda

Nell’articolo precedente sul tema dell’acqua e del modo in cui Israele gestisce le risorse idriche, è stato sottolineato  come Israele con innovazione, ricerca e riciclaggio dell’acqua sia riuscito a superare la crisi idrica che nell’ultimo decennio ha investito tutto il Medio Oriente. Questa crisi è stata una causa indiretta delle rivolte e dei problemi politici che hanno interessato diversi paesi della regione: ad iniziare dalla Siria, ma che ha colpito anche l’Iraq e l’Iran per citare i paesi più grandi e popolati. Israele ancora una volta grazie alla sua innovazione anche in campo idrico è rimasto fuori dalle turbolenze politiche regionali e risulta sempre più come uno dei Paesi più stabili e sicuri dell’intera area mediorientale. Con questo secondo articolo, dopo gli  aspetti tecnici e innovativi affrontati nel precedente verranno affrontati quelli storico-politici.

Già in passato – a partire dalla metà degli anni Sessanta – gli Arabi tentarono di sottrarre le risorse idriche allo Stato ebraico e non viceversa. I casi più importanti si verificarono con Libano e Siria. Nel 1964, il fiume Hashbani, un affluente del Giordano in territorio libanese fu fatto oggetto di un progetto della Lega araba per deviarne il corso per congiungerlo con il fiume Banias in territorio siriano così da ridurre drammaticamente le risorse idriche di Israele. Questo progetto fu bloccato da Israele che minacciò un intervento armato se fosse stato compiuto. Altro progetto portato avanti dagli arabi – sotto la supervisione egiziana – fu quello di deviare le acque del fiume Yarmuk nel suo tratto siriano per mettere in crisi l’approvvigionamento idrico israeliano. Ci furono scontri armati anche pesanti tra Israele e Siria tra il 1964 e il 1965 a causa di questo tentativo di deviazione del fiume. Alla fine la Siria desistette dal portare avanti il progetto di fronte alla forte reazione israeliana. Questa però è una delle radici che portarono alla guerra dei Sei Giorni sotto la regia egiziana (sia il progetto in Libano che quello siriano era supervisionato dagli egiziani). Va evidenziato come  le attività di sbarramento o di deviazione delle acque tra Stati confinanti, se non concordata tra le parti, sono una violazione del diritto internazionale. Oggi il controllo delle alture del Golan riveste una grande importanza, oltre che dal punto di vista militare, anche per la gestione delle fonti idriche. Infatti l’area del Golan è il punto di confluenza di quasi un terzo delle risorse idriche israeliane. Pensare di rinunciare alle alture senza un trattato di pace e di cogestione delle fonti idriche, con la Siria, sarebbe un pericolo mortale per Israele.

Anche più di recente si è riproposto il problema dell’acqua tra Libano e Israele. Risale a una quindicina di anni fa, la decisione libanese di deviare le acque del fiume Wazzani, arrivando a sottrarre da 3,5 mmc fino a 11 mmc d’acqua all’anno al lago di Tiberiade. Questo progetto ha minacciato seriamente la stabilità al confine israelo-libanese. Si trattò di un’azione che poteva creare un precedente per futuri tentativi di bloccare le risorse idriche israeliane, soprattutto dopo che Israele – ottemperando alla risoluzione 425 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU -aveva ritirato le proprie forze dal Libano meridionale. La diplomazia europea si mosse per disinnescare il potenziale conflitto con il proprio rappresentante a Beirut Patrick Renauld. Per ora il progetto è stato ridimensionato rispetto a quello iniziale. Ma se Israele non avesse dedicato risorse e tecnologia a favore della desalinizzazione delle acque questo sarebbe stato un vero e proprio casus belli, come succede in altre parti del mondo.

L’importanza dell’acqua e la sua gestione sono componenti fondamentali sia del trattato di pace siglato con la Giordania nell’ottobre del 1994 sia degli accordi di Oslo (nello specifico Oslo II del settembre 1995) siglati con l’Autorità Nazionale Palestinese.

Trattato di Pace con la Giordania

Per poter consultare il testo completo del trattato di pace tra Israele e la Giordania consigliamo il seguente link:

https://mfa.gov.il/MFA/ForeignPolicy/Peace/Guide/Pages/Israel-Jordan/Peace/Treaty.aspx

Con il trattato di pace, Israele e Giordania decisero, tra le altre cose, anche la riallocazione delle acque dei fiumi Yarmuk e Giordano.

Proprio per voler indicare l’importanza che le parti attribuivano al problema delle fonti idriche, già nel preambolo del trattato di pace vi è un riferimento alle disposizioni delle questioni idriche che vengono subito dopo quelle riguardanti i confini internazionali e la sicurezza tra i due Paesi. Le disposizioni vere e proprie si trovano negli allegati “sull’acqua e sull’ambiente” (allegati II e IV). I principali temi riguardanti l’acqua e le fondi idriche si trovano nell’articolo VI del trattato, denominato “acqua”, e dettagliato successivamente nell’allegato II.

Così ad esempio, nel comma II dell’art. VI entrambe le parti riconoscono che “l’acqua potrebbe essere motivo di cooperazione” e, contestualmente, si impegnano a “non recare danno in alcun modo alle risorse idriche dell’altra parte attraverso i propri progetti di sviluppo idrico”. Questa cooperazione, ovviamente, riguarda tutti gli aspetti dello sfruttamento e dello sviluppo idrico, con esplicito riferimento al trasferimento di acque transfrontaliere, implica altresì l’impegno alla prevenzione dell’inquinamento, alla minimizzazione degli sprechi, come anche allo svolgimento di ricerche comuni e allo scambio di informazioni.

Mentre la maggior parte delle disposizioni del trattato sono di carattere generale, è l’Allegato II a contenere le vere e proprie indicazioni per la suddivisione delle risorse idriche sopra citate. Dall’art. I al IV dell’allegato II troviamo infatti le indicazioni per la distribuzione delle acque dello Yarmuk e del Giordano, le possibilità di immagazzinamento e deviazione, la protezione della qualità delle acque di superficie nella valle dell’Aravà. In ultimo, l’art. VII prevede l’istituzione di un Comitato comune per l’acqua al fine di provvedere alle disposizioni dell’Allegato.

Va sottolineato che questo trattato bilaterale ha così fruttato alla Giordania un accrescimento idrico di circa il 7% fin dall’immediato, in più la Giordania a margine del trattato ha ottenuto degli scambi d’acqua interstagionali, cioè “l’immagazzinamento” nel lago di Tiberiade di una parte delle acque dello Yarmuk spettanti alla Giordania, durante la stagione invernale avendone grande beneficio per il periodo estivo. Il 10 novembre 1997, inoltre, è stato raggiunto un ulteriore accordo tra i due Paesi, il Jordan Plan Development, che prevede tra l’altro anche la costruzione di comuni impianti di desalinizzazione.

Un altro significativo esempio di cooperazione israelo-giordana ci viene offerto dal progetto per la creazione di un canale Mar Rosso-Mar Morto. La realizzazione di questo progetto permetterà di immettere nel Mar Morto 1,8 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno dal Golfo di Aqaba/Eilat. La costruzione del canale, che correrà da sud verso nord per 180 km attraverso condotte e tunnel prevalentemente in territorio giordano, ma a ridosso del confine fra i due Paesi, avrà un costo iniziale di un miliardo di dollari, coperto dalla Banca Mondiale. Altri 3-4 miliardi saranno necessari per costruire impianti di desalinizzazione in grado di produrre 850 mmc d’acqua dolce all’anno. Due terzi di quest’acqua serviranno la Giordania , il rimanente verrà suddiviso tra Israele e territori palestinesi.

Accordi di Oslo II, settembre 1995

Per consultare il testo completo degli accordi, si consiglia il seguente link:

https://www.jewishvirtuallibrary.org/interim-agreement-on-the-west-bank-and-the-gaza-strip-oslo-ii

Come per il trattato di pace con la Giordania, Israele ha disciplinato nel testo degli accordi tutte le disposizioni in materia di sfruttamento e distribuzione dell’acqua con l’Autorità Nazionale Palestinese. Specificatamente, nell’appendice I, all’art. 40, le parti hanno concordato in modo estremamente dettagliato l’utilizzo delle risorse, i compiti delle parti nella gestione del sistema idrico e lo stabilirsi di una commissione congiunta per la verifica del fabbisogno della popolazione. Tra i compiti di parte israeliana, c’è quello di fornire la maggior parte dell’acqua per la popolazione palestinese. Inizialmente, fu stabilito che le autorità israeliane dovessero fornire una quantità pari a 28.6 mcm/anno di acqua fresca per la popolazione palestinese. Nel corso degli anni successivi la commissione congiunta ha aumentato enormemente questa quantità d’acqua per migliorare la situazione idrica dei palestinesi. Così già nei primi anni 2000, la quantità erogata da Israele è passata da 28.6 mcm/anno (concordata negli accordi di Oslo) a 47 mcm/anno fino a raggiungere i 52 mcm/anno. Quindi il doppio di quella prevista dagli accordi (fonte: rapporto annuale del capo dipartimento delle infrastrutture civili colonnello Amnon Cohen). Va anche sottolineato che è la società statale israeliana Mekorot che trasporta oltre l’80% dell’acqua nei territori palestinesi. Allora come si spiega l’accusa, rivolta ad Israele, di “rubare” l’acqua e l’emergenza cronica nei territori amministrati dai palestinesi se l’acqua erogata, da Israele, è doppia di quella stabilita dagli accordi? Basta entrare nel dettaglio della situazione dei territori palestinesi e di come sono amministrati.

Le competenze palestinesi, sancite dagli accordi di Oslo e nello specifico come stabiliti dal comma 8 che si riporta in originale:

  • Palestinian Responsibility:
      1. An additional well in the Nablus area – 2.1 mcm/year.
      2. Additional supply to the Hebron, Bethlehem and Ramallah areas from the Eastern Aquifer or other agreed sources in the West Bank – 17 mcm/year.
      3. A new pipeline to convey the 5 mcm/year from the existing Israeli water system to the Gaza Strip. In the future, this quantity will come from desalination in Israel.
      4. The connecting pipeline from the Salfit take-off point to Salfit
      5. The connection of the additional well in the Jenin area to the consumers.
      6. The remainder of the estimated quantity of the Palestinian needs mentioned in paragraph 6 above, over the quantities mentioned in this paragraph (41.4 – 51.4 mcm/year), shall be developed by the Palestinians from the Eastern Aquifer and other agreed sources in the West Bank. The Palestinians will have the right to utilize this amount for their needs (domestic and agricultural).

Come si evince dal testo, tra le competenze palestinesi si trovano: l’apertura di nuovi pozzi, la costruzione di reti di acquedotti tra le aree popolate, la connessione di acquedotti con la rete israeliana, la salvaguardia e la valorizzazione delle falde acquifere presenti nel territorio amministrato. Oltre a ciò gli accordi prevedono la manutenzione della rete idrica e l’abbattimento dell’inquinamento delle falde acquifere a causa della scarsità della rete fognaria nelle città palestinesi. Cosa è stato fatto in questi 25 anni? Praticamente nulla. Oltre a tutto questo, nel 2007 l’Autorità palestinese ha avuto in uso – da parte del governo israeliano – un terreno, sulla costa mediterranea di Israele vicino alla città di Hadera, per costruirvi un impianto di desalinizzazione dell’acqua, il quale, se in funzione, potrebbe fornire 100 milioni di metri cubi di acqua potabile all’anno. Cosa ne ha fatto? Nulla.

In base ai dati raccolti si può affermare che l’emergenza idrica tra i palestinesi non è data dall’acqua “rubata” da Israele – che fornisce il doppio dell’acqua pattuita negli accordi di Oslo – ma dalla totale assenza di investimenti palestinesi per la costruzione di impianti di desalinizzazione, di infrastrutture, di manutenzione dalla rete idrica (recenti indagini di tecnici hanno stabilito che le perdite d’acqua nella rete idrica palestinese è pari al 70%) e di costruzione di depuratori fognari. Oltre a ciò, ci sono da aggiungere i numerosissimi casi di allacci abusivi alla rete idrica e la endemica morosità nel pagamento delle bollette dell’acqua. Perché allora si da la colpa ad Israele? Semplice, perché così la dirigenza palestinese ha un duplice risultato: da un lato scarica le proprie responsabilità e inefficienze agli occhi della propria popolazione verso Israele e dall’altro ottiene nuovi aiuti internazionali che vengono fatti sparire dai “cleptocrati” dell’ANP.

Vale la pena, a questo proposito, fare un solo esempio di come l’informazione viene creata e diffusa in tutto il mondo su questo argomento. Circa una decina di anni fa la World Bank pubblicò un rapporto, molto superficiale, che non analizzava le cause del disastro idrico nei “territori”, ma affermava che gli ebrei potevano disporre di molta più acqua degli arabi, citando unicamente “fonti” palestinesi. La BBC lo riprese, ed essendo, appunto, “prestigiosa”, la notizia finì sui nostri media come se fosse una verità incontrovertibile. C’è anche da sottolineare che insieme alla Cisgiordania, il rapporto della World Bank inseriva anche la striscia di Gaza, dove, non essendoci nessun israeliano da numerosi anni, permette di comprendere con quale accuratezza la banca mondiale stili i suoi rapporti. Ecco come si è creato il mito dell’acqua “rubata”.

Di questo mito si è poi fatto portavoce anche Martin Shultz in qualità di presidente del Parlamento europeo. Per Shultz, il quale si recò in Israele nel  2014 a chiederne ragione, Israele applicava nei confronti dei palestinesu una vera e propria “apartheid dell’acqua”. Le autorità israeliane gli fecero notare notare come stavano e stanno effettivamente le cose: le erogazioni medie di acqua disponibile sono alla pari, cioè 160 metri cubi pro capite per consumo annuo per ogni israeliano e altrettanti metri cubi per ogni palestinese. La differenza sta nel suo utilizzo: le tecniche di trattamento e di riciclaggio delle acque reflue fruttano una maggiorazione di circa 800 milioni di metri cubi in Israele (otre alle altre tecniche descritte nell’articolo del 8 ottobre ad iniziare agli impianti di desalinizzazione). I palestinesi, invece, disperdono circa il 95% dei 56 milioni di metri cubi d’acqua destinati al consumo soprattutto in agricoltura, cioè i palestinesi sovrairrigano i loro campi perché adottano metodi di coltivazione ancora molto arretrati. Inoltre, essi non hanno mai considerato la possibilità di mettere mano alla ricostruzione della fatiscente rete idrica, la quale causa notevoli perdite d’acqua disponibile, nonostante i molti fondi internazionali pervenuti all’Autorità Nazionale Palestinese per interventi infrastrutturali sul territorio, come evidenziato in precedenza. Infine venne spiegato a Schultz che in Cisgiordania è operativo un solo impianto di depurazione. Questo è la causa del perché ogni anno 17 milioni di metri cubi di liquami palestinesi finiscono in territorio israeliano. Tocca poi da Israele farsi carico di trattare anche la quota palestinese dei liquami, per evitare il rischio di inquinamento delle falde. Ma il mito  resta inscalfibile: Israele “ruba” l’acqua dei palestinesi.

 

 

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