Interviste

Israele, specchio di ciò che ogni nazione dovrebbe essere: Intervista a Richard Millet

Richard Millet è uno dei grandi scrittori contemporanei, il cui talento è adombrato dalle infinite polemiche suscitate dai suoi incendiari pamphlet e dalle sue prese di posizione politiche.

Letterato raffinato, melomane appassionato, polemista dalla penna accuminata, Millet è anche un uomo d’azione. Ha combattuto, veramente, Ak-47 in pugno, con le falangi libanesi contro quelle che, in una precedente intervista, ha chiamato “forze islamo-progressiste”. Non a caso, sembra prediligere i romanzieri combattenti: Malraux, Hemingway, Malaparte, Faulkner e Simon.

La sua esperienza libanese lo ha avvicinato a Israele, al popolo ebraico e alla religione cristiana. A Israele ha dedicato un libro, Israël depuis Beaufort, in cui si può leggere: “Non c’è forse sempre un ebreo che testimonia per me, se non in me, un cristiano che è così carico di gratitudine eterna?”.

In questa intervista, concessa a L’Informale, risponde ad alcune domande sulla musica, sul silenzio e, naturalmente, su Israele.

Partirei dalla musica, sua grande passione. Jean Sibelius è stato uno dei grandi compositori della storia della musica, autore di capolavori come Valse triste, Karelia suite, Finlandia, sinfonie e concerti per violino. Lei ha dedicato un libro a Sibelius. Cosa l’affascina e cosa la inquieta del compositore finlandese?

Sibelius mi affascina per due motivi: come è stato possibile che un’opera musicale importante sia emersa alla fine del XIX secolo, ai confini dell’Europa, in un paese incerto come la Finlandia, al punto che questo compositore ha finito per confondersi con il suo paese? Perché questo compositore ha potuto, dopo la sua settima sinfonia, rimanere in silenzio per trent’anni, fino alla sua morte nel 1957? Oltre al fascino che la sua musica esercita su di me, ce n’era abbastanza per cercare di risolvere l’enigma – senza peraltro riuscirci: era la bellezza dell’assenza di una risposta, che mi faceva desiderare di saperne di più.

La musica, il silenzio e la solitudine sono al centro delle sue opere letterarie. Con la diffusione della musica rap, della “festa” permanente, del rumore urbano, è ancora possibile restare soli?

La nostra epoca odia il silenzio, ne ha paura: l’individuo occidentale connesso cerca la perpetuità del rumore, il basso martellante dell’electro, le scansioni odiose o pseudo-ribelli del rap, quando non è la musica dell’ipermercato o la «muzak» dell’«arredo urbano». L’uomo contemporaneo, consumista, alienato, decristianizzato, ha paura di sé stesso – della sua morte. Ha evacuato la morte: il cadavere è ormai invisibile, come la guerra… Diseducato, vive nel divertimento del presente, senza passato, senza futuro, anche.

Il professor Renato Cristin, nella prefazione all’edizione italiana de L’antirazzismo come terrore letterario, scrive: “L’esperienza della guerra in Libano ha rafforzato in Millet la convinzione che la cultura ebraica non sia solo parte integrante ma anche costitutiva dell’identità europea”. Qual è il contributo degli ebrei alla civiltà europea? Secondo lei è ancora possibile una presenza ebraica in Europa?

Il contributo ebraico all’identità europea è così considerevole che è impossibile vedere come possa essere separato o ignorato, come vorrebbero gli antisemiti. Ho detto spesso, per esempio, ciò che devo agli interpreti ebrei della musica classica, da Clara Haskil a Evgeni Kissin, a compositori come Mendelssohn, Ernest Bloch, Milhaud, a poeti come Mandelstam, Fondane, Celan, Brodsky, Jabès, a Proust, Kafka, Primo Levi, Bassani, ai filosofi Chestov, Rosenzweig, Arendt, Lévinas, o un saggista come George Steiner, e così via. E alla Bibbia, naturalmente… Gli ebrei francesi sono ancora la più grande comunità d’Europa. Sono, purtroppo, oggetto dell’odio antisemita da parte degli immigrati musulmani che rappresentano l’attualizzazione, attraverso l’islamismo, dell’antisionismo, e mostrano chiaramente l’incompatibilità dell’islam e del giudeo-cristianesimo.

Lei ha dedicato un libro a Israele, Israël depuis Beaufort, cosa ammira d’Israele? Secondo lei, quali sono le ragioni dell’odio antisionista?

Sono cresciuto in Libano, tra il 1960 e il 1967. Opposto a Israele, quindi. Lì ho visto la Guerra dei sei giorni. Più tardi, mi sono unito ai cristiani libanesi contro i palestinesi marxisti che tenevano sotto il loro controllo il Libano, un paese militarmente debole. Se il presidente Bashir Gemayel non fosse stato assassinato nel 1982, avrebbe firmato l’accordo di pace con Israele, come sappiamo, e Hezbollah non controllerebbe oggi questo paese come organizzazione politico-mafiosa. Israele è dunque, per noi, lo specchio di ciò che ogni nazione dovrebbe essere oggi, invece di dissolversi nel conglomerato senz’anima dell’Unione Europea, dove il politicamente corretto sembra essere l’unico orizzonte politico. L’Unione Europea è una struttura economico-politica al servizio di un mercato globalizzato per il quale le nazioni, i diritti umani, l’antirazzismo e le teorie del genere sono apparati ideologici di stato utilizzati per mettere a tacere i recalcitranti che rifiutano il nuovo ordine mondiale.

Come vede il futuro dell’Europa?

Il futuro dell’Europa? Molto cupo, quindi, soprattutto se aggiungiamo il cambiamento climatico, la crescente minaccia dell’Islam, il numero di migranti e la fragilità di un’identità già minacciata dall’oblio di sé.

Ultima domanda: come ha vissuto il periodo della pandemia?

La pandemia, i confinamenti successivi, sono dolorosi, ma non al punto di costituire una minaccia alle «libertà» come gli imbecilli che credono di vivere un’esperienza vicina all’occupazione tedesca! Gli altri stavano (e stanno ancora) protestando contro la mancanza di libertà – una libertà di cui non sanno cosa farsene perché sono sottomessi al politicamente corretto americano. La mia vita non è cambiata molto: ho letto, scritto, suonato, parlato con i pochi amici che mi sono rimasti. E ho ricevuto a ciò che la pandemia annuncia: una forma di governo della salute? Una ridistribuzione delle carte economiche? Tutto questo avviene contemporaneamente al disimpegno occidentale in Iraq, Afghanistan, Mali, ecc. dove gli islamisti trionferanno di nuovo.

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