Israele e Medio Oriente

La falsa narrativa della “Nakba”

Sommario: Il termine “Nakba”, originariamente coniato per descrivere l’estensione della sconfitta palestinese e araba autoinflitta nella guerra del 1948, è diventato negli ultimi decenni un sinonimo del vittimismo palestinese, con gli aggressori falliti trasformati in vittime sfortunate e viceversa . Israele dovrebbe fare tutto il possibile per sradicare questa falsa immagine esponendo la sua base storica palesemente falsa.

Ai giorni nostri, il fallito tentativo palestinese di distruggere lo Stato di Israele alla sua nascita e la conseguente fuga di circa 600.000 arabi palestinesi, è diventato noto a livello internazionale come la “Nakba”, la catastrofe, accompagnato da false implicazioni di vittimismo.

Ironicamente, questo era l’opposto del significato originale del termine, quando fu applicato per la prima volta al conflitto arabo-israeliano dallo storico siriano Constantin Zureiq. Nel suo opuscolo del 1948, Il significato del disastro (Ma’na al-Nakba), Zureiq attribuì la fuga palestinese / araba all’assalto panarabo contro il nascituro Stato ebraico piuttosto che a un premeditato disegno sionista per diseredare gli arabi palestinesi:

“Quando è scoppiata la battaglia, la nostra pubblica diplomazia ha cominciato a parlare delle nostre vittorie immaginarie, allo scopo di addormentare il pubblico arabo e parlare della capacità di vincere e vincere facilmente – fino a quando si è verificata la Nakba… Dobbiamo ammettere i nostri errori … e riconoscere l’estensione della nostra responsabilità per il disastro che grava su di noi”.

Zureiq ha sottoscritto questa visione critica per decenni. In un libro successivo, Il significato della catastrofe (Ma’na al-Nakbah Mujaddadan), pubblicato dopo la guerra del giugno 1967, definì quest’ultima sconfitta come una “Nakba” piuttosto che come una “Naksa” (o battuta d’arresto), come venne ad essere definita nel discorso arabo, in quanto – proprio come nel 1948 – fu un disastro autoinflitto provocato dall’incapacità del mondo arabo di confrontarsi con il sionismo.

A quel tempo, il termine “Nakba” era chiaramente assente dal discorso arabo e / o palestinese. La sua prima menzione – nell’influente libro di George Antonius The Arab Awakening – non aveva nulla a che fare con il (ancora inesistente) conflitto arabo-israeliano, ma con la creazione successiva alla Seconda guerra mondiale del moderno Medio Oriente (“L’anno 1920 ha una cattiva nomea negli annali arabi: è indicato come l’Anno della Catastrofe o, in arabo, Aam al-Nakba “).

Allo stesso modo, nel suo libro del 1956 Fatti sulla questione della Palestina (Haqa’iq e Qadiyat Falastin), Hajj Amin Husseini, il capo degli arabi palestinesi dai primi anni 1920 al 1948, usò il termine “al-Karitha” per descrivere il crollo e  la dispersione araba-palestinese. Secondo l’accademico palestinese Anaheed Al-Hardan dell’Università americana di Beirut, ciò riflette il desiderio di Husseini di evitare il termine “Nakba”, che all’epoca era ampiamente associato a un disastro arabo palestinese autoinflitto – sia attraverso vendite di terreni ai sionisti, incapacità di combattere, o dando istruzioni alle persone di andarsene.

Né il termine riemerse per decenni dopo la guerra del 1948 – nemmeno nel sacro documento di fondazione dell’OLP, The Palestinian Covenant (1964, revisionato nel 1968). Fu solo alla fine degli anni ’80 che cominciò a essere ampiamente percepita come una ingiustizia inflitta da Israele. Ironia della sorte, fu un gruppo di nuovi storici” israeliani politicamente impegnati, che fornirono al movimento nazionale palestinese forse il suo miglior strumento di propaganda capovolgendo la saga della nascita di Israele, con gli aggressori trasformati in vittime sfortunate e viceversa, sulla base di una massiccia deformazione delle prove archivistiche.

Mentre generazioni precedenti di accademici e intellettuali palestinesi si erano astenuti dall’esplorare le origini della sconfitta del 1948, il presidente dell’OLP Yasser Arafat, che era stato trasferito a Gaza e in Cisgiordania come parte degli Accordi di Oslo del 1993 e aveva permesso di stabilire la sua Autorità Palestinese (AP) in alcune parti di quei territori, colse l’immenso potenziale di reincarnare la Nakba come simbolo del vittimismo palestinese piuttosto che come un disastro autoinflitto. Nel 1998, proclamò il 15 maggio una giornata nazionale di commemorazione della Nakba. Negli anni successivi, la “Nakba Day” diventò una componente integrale della narrativa nazionale palestinese e l’evento più importante che commemora la “catastrofe” del 1948.

La sensibilità israeliana nei confronti del termine “Nakba” crebbe quando si venne a sapere che il 15 maggio 2007, il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon aveva telefonato al presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas per esprimere simpatia nei confronti dell popolo palestinese in onore della “Nakba Day”. Il vice capo della missione delle Nazioni Unite di Israele lamentò che la parola “Nakba” era uno strumento di propaganda araba usato per minare la legittimità dell’istituzione dello Stato di Israele e non avrebbe dovuto fare parte del lessico delle Nazioni Unite.

Mentre i diplomatici israeliani erano impegnati a dissuadere le loro controparti dal cadere nella trappola della falsa narrativa dell’AP, nel luglio 2007 la Knesset discusse una decisione del ministro dell’educazione Yuly Tamir volta a includere la Nakba come argomento nel programma annuale per la minoranza araba in Israele.

Fortunatamente, il 30 marzo 2011, la legge sui principi di bilancio (nota come emendamento n. 40) – “Riduzione delle elargizioni finanziarie o supporti dovuti all’attività contro i principi dello Stato” – è stata pubblicata nel registro ufficiale israeliano. L’emendamento n. 40 ha aggiunto una sezione alla legge sui principi di bilancio del 1985 che autorizza il ministro delle finanze a ridurre le elargizioni finanziarie o il sostegno a qualsiasi organizzazione o entità che riceve finanziamenti statali se svolge una delle cinque attività seguenti:

  1. Rigettare l’esistenza dello Stato di Israele come Stato ebraico e democratico.
  2. Incitare al razzismo, alla violenza, o al terrorismo.
  3. Sostenere la lotta armata o un’azione terrorista da parte di uno Stato nemico o di una organizzazione terroristica contro lo Stato di Israele.
  4. Commemorare il Giorno dell’Indipendenza o il giorno della nascita dello Stato come un giorno di lutto.
  5. Vandalizzare o dissacrare fisicamente la bandiera dello Stato o il suo simbolo.

L’emendamento n. 40, soprannominato in modo non ufficiale “la legge Nakba”, è ormai radicato nel discorso quotidiano giuridico e parlamentare israeliano, nonostante abbia dovuto fronteggiare forti critiche da parte dei partiti arabi che sostenevano che non superava la prova della libertà di espressione. A loro avviso, la legge minerebbe la libertà di espressione artistica in eventi come produzioni teatrali o letture di poesie che trattano esplicitamente della Nakba, dei profughi palestinesi o del desiderio di tornare in patria.

La legittimazione dell’uso ormai comune del termine “Nakba” nel discorso ufficiale israeliano, sia orientato positivamente che negativamente, fornisce un servizio alla causa palestinese. Se considerato come un segmento integrale della storia israeliana, il termine contraddice la posizione corretta di Israele che respinge la responsabilità per la creazione del problema dei rifugiati. Nel processo, legittima la falsa narrativa vittimistica palestinese che definisce la Nakba come il “più grande peccato del Ventesimo secolo”.

La “Nakba” non è un fatto. È un termine manipolatorio e accattivante progettato allo scopo di servire la campagna di propaganda palestinese contro Israele. Israele dovrebbe astenersi dal legittimare il termine, in quanto impone un falso senso di colpa o di colpevolezza per la creazione del problema dei rifugiati addossandolo allo Stato. Né si dovrebbe usare la parola per riferirsi alla deportazione di massa degli ebrei dagli stati arabi, poiché ciò crea un’impressione di ingiustizia equivalente. La fuga degli arabi palestinesi è stata il risultato diretto di una fallita “guerra di sterminio e di un massacro epocale” (nelle parole del segretario generale della Lega araba). L’espulsione delle proprie popolazioni ebraiche da parte degli Stati arabi fu un atto inequivocabile di pulizia etnica.

Israele farebbe bene a dare nuovamente ascolto al discorso epocale di Abba Eban, allora ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite, tenuto il 17 novembre 1958. Affrontò la questione dei rifugiati senza usare il termine Nakba:

“Il problema dei rifugiati arabi è stato causato da una guerra di aggressione, lanciata dagli Stati arabi contro Israele nel 1947 e nel 1948. Che non ci siano errori. Se non ci fosse stata una guerra contro Israele, con il conseguente raccolto di sangue, miseria, panico e fuga, oggi non ci sarebbe alcun problema dei rifugiati arabi. Una volta che venga stabilita la responsabilità di quella guerra, si è determinata la responsabilità in merito al  problema dei rifugiati. Nulla nella storia della nostra generazione è più chiaro o meno controverso dell’iniziativa dei governi arabi a favore del conflitto da cui è scaturita la tragedia dei rifugiati. Le origini storiche di quel conflitto sono chiaramente definite dalle confessioni dei governi arabi stessi: ‘Questa sarà una guerra di sterminio’, dichiarò il segretario generale della Lega araba parlando a nome di sei Stati arabi. ‘Sarà un massacro memorabile a cui riferirsi come a quello dei mongoli o alle crociate'”.

Traduzione di Niram Ferretti

https://besacenter.org/perspectives-papers/nakba-false-narrative/

 

 

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