Israele e Medio Oriente

La guerra in corso e le sue incognite

Come fare in modo che il conflitto tra Israele e Hamas, il maggiore dal 2007, quando il gruppo salafita si instaurò nella Striscia, non si concluda con una vittoria netta di Israele, lo spiega molto bene oggi Caroline Glick. https://www.israelnationalnews.com/news/381051

Gli Stati Uniti, il principale alleato di Israele, sono, come sottolinea la Glick, un grosso ingombro, soprattutto lo è questa amministrazione. Da una parte c’è la fornitura di armi necessaria a Israele per combattere la guerra in corso, dall’altra ci sono le continue esortazioni  a limitare il numero delle vittime civili e a proseguire nel fornire aiuti umanitari, a fare in modo, insomma, che la guerra si combatta ma in modo assai diverso, per esempio da come gli Stati Uniti la combatterono a Mosul, dove queste preoccupazioni erano secondarie rispetto allo scopo militare da raggiungere, eliminare l’ISIS, insediatosi nella città irachena.

Nihili sub sole novum, ovviamente. I criteri militari di combattimento, quando sono altre potenze democratiche a trovarsi coinvolte, sono sufficientemente laschi in merito alla cosiddetta “proporzionalità” e alla cura di evitare i ben noti “danni collaterali”. Il caso di Israele fa sempre eccezione essendo scrutinato come nessun altro Stato al mondo quando deve difendersi e non solo in questo caso.

La politica è arte complessa, soprattutto quella internazionale, e in modo particolare quando sono coinvolti gli arabi, o per allargare il concetto, i musulmani. Così, Joe Biden, in ottobre scongela 6 miliardi di dollari a vantaggio dell’Iran attraverso una banca coreana che li rende disponibili in Qatar, ma solo per “usi umanitari” (gli Stati Uniti sono ossessionati dalle specificazioni etiche), sperando in questo modo di ammorbidire un regime terrorista, come ha fatto Israele con Hamas, usando sempre il Qatar come intermediario, ottenendo il risultato del 7 ottobre scorso. L’Iran, il cui presidente, Raisi, dichiara con ossequio mafioso che per le efferatezze demoniache compiute da Hamas, gli si devono baciare le mani. L’Iran che, per rotazione si trova a presiedere la Commissione per i diritti umani dell’Onu, dove siede anche l’italiana Francesca Albanese relatrice per “i diritti umani dei palestinesi nei territori occupati”, bollata di antisemitismo dal Centro Simon Wiesenthal e per la quale, “Israele non ha diritto di difendersi” in quanto oppressiva potenza coloniale. Un consesso simile non sarebbe stato in grado di immaginarselo neanche Swift.

Una volta che Netanyahu ha ceduto alla necessità di dovere liberare gli ostaggi in virtù di un accordo con i terroristi, una volta che questa decisione ha stabilito una tregua il cui meccanismo si continua a rinnovare, per averne altri che Hamas centellina, gli Usa hanno capito bene che questa è l’occasione migliore per un cessate il fuoco permanente, nonostante si proclami ufficialmente che l’obbiettivo di Israele di sradicare Hamas dalla Striscia, sia legittimo.

Ma è ancora così? e sarà possibile conseguirlo? (ovvero, ci sarà la volontà politica di raggiungerlo?). A queste domande se ne aggiunge un’altra: nel caso di eventuali altri rilasci di ostaggi civili che prolungheranno la tregua, cosa accadrà degli ostaggi militari che Hamas detiene, e per i quali ha già dichiarato che il prezzo della loro liberazione sarà di ordine diverso rispetto a quello dei civili finora rilasciati? Nel 2011 per riavere il sergente Gilad Shalit, detenuto da Hamas da oltre cinque anni, Israele fu disposto a rilasciare 1027 terroristi.

Queste e altre domande alla fine si riassumono in una domanda sola. Quale prezzo è disposto a pagare Israele per questa guerra?

È chiaro che se Gaza non dovesse essere liberata da Hamas per Israele si configurerebbe un fallimento di proporzioni inusitate. Non solo non verrebbero colpiti nel modo più perentorio possibile i responsabili dell’eccidio del 7 ottobre, non solo la perdita di più di settanta soldati avvenuta nei combattimenti sarebbe stata vana, ma in tutto il Medio Oriente la debolezza dello Stato ebraico si attesterebbe in modo irrimediabile. Verrebbe meno il mito della sua forza, così come il 7 ottobre è venuto meno quello della sua capacità di deterrenza, dell’eccelso livello della sua intelligence. A questo punto, il suo nemico regionale principale, l’Iran rilancerebbe la posta con Hezbollah, che in questo conflitto ha evitato di entrare in gioco in modo massiccio.

Hamas canterebbe vittoria, proclamando che la “resistenza” palestinese è stata in grado di respingere il nemico sionista, di avergli tenuto testa. Yahya Sinwar assurgerebbe a un ruolo eroico, e Hamas allargherebbe la propria influenza ben oltre Gaza, relegando Fatah all’irrilevanza.

Fantapolitica? Joe Biden e il suo plenipotenziario in Medio Oriente, Antony Blinken, stanno agendo in modo che Israele sia costretto a muoversi entro limiti ben precisi di azione. Una ripresa della guerra a sud, dove è asserragliato il grosso di Hamas insieme ai suoi capi, e dove si trovano il resto degli ostaggi, non può che comportare la battaglia più impegnativa, e l’inevitabile morte di molti civili, che Hamas usa, come è noto, a propria protezione.

La guerra che riprende con forza dirompente è un prezzo che l’amministrazione Biden è disposta ad assorbire sia sul piano internazionale che su quello interno?

Non è più opportuno per la Casa Bianca trovare un modo che, secondo i suoi criteri, consenta a Israele di non perdere completamente la faccia e, al contempo, impedisca un nuovo inevitabile spargimento di sangue con la crescita a dismisura di cifre di morti, fornite dalla più inattendibili delle fonti, Hamas, che però vengono riprese e diffuse su tutti i media internazionali e fatte proprie dall’ONU, senza alcuna riserva?

La verità è che in questa situazione non ci sono uscite di sicurezza facili. Israele non ha altra scelta se non di andare fino in fondo. Solo lo sradicamento di Hamas dalla Striscia può sgomitolare il garbuglio. Che esso abbia la determinazione di farlo e che gli venga permesso, è un’altra storia.

 

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