Israele e Medio Oriente

La guerra in stallo e le sue conseguenze

Le guerre, per quanto possibile, è sempre meglio finirle in fretta, raggiungere gli obiettivi che ci si è preposti per poi cercare di ritornare a una situazione di normalità, altrimenti si rischia di impantanarsi in una situazione di incertezza e imprevedibilità dalla quale diventa molto difficile uscire.

Purtroppo il governo di unità nazionale guidato da Benjamin Netanyahu è andato proprio in questa direzione e a sette mesi dal quel tragico 7 ottobre 2023, i due leader di Hamas a Gaza (Yahya Sinwar e Mohammed Deif) sono ancora latitanti, e la pressione su Hamas per cercare di riportare a casa i restanti ostaggi è stata allentata. Nel centro e nel nord di Gaza sono rispuntati i terroristi e a Rafah l’IDF ancora non ha messo piede, nonostante i continui proclami di Netanyahu che probabilmente resteranno tali, almeno per il momento. Del resto l’amministrazione Biden non vuole assolutamente che venga dato il via all’offensiva su Rafah, in teoria a causa delle possibili perdite di civili palestinesi, in pratica però le ragioni sono ben altre, come emerso anche dalle pressioni fatte su Israele affinchè non rispondesse ai più di trecento droni e missili balistici lanciati dall’Iran. E’ oramai noto che l’iniziale risposta al regime di Teheran è stata bloccata da una telefonata di Biden a Netanyahu che ancora una volta ha ceduto.

Nel nord d’Israele intanto sono ancora migliaia le persone sfollate a causa dei continui attacchi di Hezbollah ed anche in questo caso Netanyahu non sembra aver fretta di lanciare un’offensiva efficace con l’obiettivo di ripristinare la normalità nella zona.

Inutile prendersi in giro, l’amministrazione Biden è preoccupata di perdere le elezioni, di perdere Michigan e Minnesota, ben consapevole che molti dei voti arriveranno da quegli stessi ambienti che stanno portando avanti nelle università americane una caccia all’ebreo degna della Germania nazista degli anni ’30.

Trattasi di manifestazioni dove si inneggia a Hamas, a Hezbollah, all’intifada; si invoca la morte dell’America, la distruzione di Israele, si aggrediscono gli studenti ebrei; oscenità del genere si sono viste alla Columbia University, a Yale, alla NYU ed altre ancora.

Una studentessa ebrea a Yale è stata colpita in un occhio con una bandiera palestinese da un manifestante che poi è fuggito protetto dai suoi compagni.

Al professore israeliano della Columbia University, Shai Davidai, è stato impedito di entrare nel campus e la sua tessera di docente è stata disattivata dopo aver criticato l’università per non aver protetto gli studenti ebrei.

Sharon Knafelman, vice-presidente di Bears for Israel, associazione attiva a Berkley, ha raccontato a Fox News:

Ho visto sputare addosso al mio amico, chiamato “sporco ebreo”, ho visto una ragazza venire strangolata… Gli Stati Uniti si trovano ora davanti a una decisione, se stare o meno dalla parte giusta della storia“.

Se questo è il bacino elettorale di cui l’amministrazione Biden è preoccupata, allora non c’è da sorprendersi se Washington da mesi fa di tutto per fermare Israele dallo sradicare Hamas e dal rispondere militarmente al regime iraniano. Del resto a poco più di una settimana dall’aggressione iraniana a Israele, l’agenzia di stampa tedesca Dpa ha riferito che l’Iran è nuovamente in contatto con gli Stati Uniti per la ripresa dei colloqui sul nucleare.

Diversi media statunitensi hanno evidenziato come le manifestazioni siano diventate ancor più aggressive e violente nell’ultima settimana, tanto che in alcune università della Ivy League è stato richiesto l’intervento della polizia in assetto anti-sommossa per effettuare gli sgomberi.

Ciò non è un caso. La non-azione di Netanyahu, i suoi continui proclami bellici privi di conseguenti azioni efficaci, il sottostare al volere dell’amministrazione Biden non stanno soltanto mostrando un’immagine debole d’Israele, mettendo in serio rischio la sicurezza del Paese (l’Iran non avrebbe mai attaccato altrimenti direttamente dal proprio territorio) ma sta anche mettendo in pericolo le comunità ebraiche all’estero.

I registi delle manifestazioni pro-Hamas nelle università americane sono ben consapevoli del potere di cui dispongono, sanno di poter esercitare pressione su un’amministrazione Biden che già di suo non è mai stata incline a sostenere Israele e che è terrorizzata dell’esito elettorale. In aggiunta, vedono che il governo guidato da Netanyahu si sta mostrando debole e dunque si sentono in posizione di forza e legittimati a proseguire con gli attacchi contro gli studenti ebrei.

Trump era stato molto chiaro con Netanyahu, consigliandogli di finire in fretta ciò che andava fatto a Gaza, ben consapevole che un prolungamento del conflitto avrebbe reso tutto più difficile. Netanyahu ha però fatto l’esatto contrario.

Oggi, a sette mesi dal 7 ottobre, ci si trova con Hamas ancora radicato nel sud di Gaza, numerosi ostaggi mancano ancora all’appello, gli sfollati nel nord d’Israele non sono ancora potuti rientrare nelle proprie case, la risposta israeliana all’Iran è stata inadeguata (ha ragione Ben Gvir) e gli studenti ebrei nelle università statunitensi sono vittime di una persecuzione degna della Germania nazista.

Un fallimento su tutta la linea che potrà anche andare a genio a Biden, ma che non giustifica Netanyahu. Sembra quasi che il premier israeliano voglia trascinare la situazione il più a lungo possibile, a discapito della stabilità e dell’economia israeliana, dunque agli interessi di Israele stesso.

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